Promotrici del cambiamento

È la filosofia alla base del lavoro di Fulvia Astolfi e delle co-fondatrice della società di consulenza per la promozione della DE&I all’interno di imprese e istituzioni. Perché solo lavorando su una nuova cultura aziendale si potrà ottenere una vera inclusione

Fulvia-Astolfi-Obiettivo-CinqueAvvocato, esperta di governance e di politiche di genere, Fulvia Astolfi è anche Presidente di European Women's Management Development (EWMD) Roma. È stata Managing Partner di Hogan Lovells Roma

La parità di genere è una condizione nella quale le persone ricevono pari trattamenti, con uguale facilità di accesso a risorse e opportunità, indipendentemente, appunto, dal genere. A oggi, la Commissione europea nella comunicazione relativa alla strategia per la parità di genere 2020-2025 ha evidenziato che nessun Stato membro ha raggiunto l’equità tra uomini e donne, che rappresenta uno dei 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile che gli Stati si sono impegnati a centrare entro il 2030.

Incrociando i dati, emerge che l’Italia è il Paese che negli ultimi dieci anni ha realizzato i maggiori progressi in Europa: fissando a 100 l’indice di assoluta parità tra uomini e donne, siamo a quota 63.5 ovvero al 14esimo posto su 28 Paesi della Ue. A metà classifica, ben lontani dalla Svezia (che sfiora gli 84 punti), ma in ripresa. È possibile un’ulteriore evoluzione? E perché il tema della parità e della Diversity, Equity & Inclusion è così importante anche per lo sviluppo delle aziende? Lo abbiamo chiesto a Fulvia Astolfi, avvocato, esperta di governance e di politiche di genere, già Managing Partner di Hogan Lovells a Roma e presidente dell’European Women’s Management Development. Astolfi ha fondato Obiettivo Cinque, società di consulenza per la promozione della parità di genere e dell’inclusione all’interno delle imprese e delle istituzioni, pubbliche e private.

Avvocato Astolfi, come è nata l’idea di creare una società di consulenza di questo genere, in Italia?
Insieme alle altre quattro fondatrici, tutte donne, l’idea è nata da un’intuizione comune: bisognava agire. Era il 2020, il momento giusto per scommettere su certe questioni: i dati internazionali rilevavano quanto il nostro Paese, sul fronte della sostenibilità aziendale, che comprende la governance e le politiche di genere, fosse ancora indietro. Eravamo prima della legge Gribaudo (la legge, pubblicata il 5 novembre del 2021 sulla Gazzetta Ufficiale, stabilisce la parità salariale e l’eliminazione del gender pay gap in azienda, ndr) e ancora molto c’era e c’è da fare.

Come operate concretamente?
Partiamo sempre dai numeri. Sono solo i numeri e l’analisi dei dati a dare la fotografia della situazione. Capita spesso di approcciarsi a un cliente che è convinto, e lo è in buona fede, di fare già il massimo sul fronte della DE&I. Solo focalizzandosi nel dettaglio dei processi aziendali, solo analizzando in maniera precisa i ruoli, gli stipendi, le possibilità di carriera, le eventuali discriminazioni più o meno nascoste si ha un quadro oggettivo. La prima cosa che diciamo ai clienti è che il tema della parità di genere e dell’inclusione non si esaurisce mai: dopo un obiettivo raggiunto, si può sempre migliorare. Si tratta di un percorso di crescita: il raggiungimento della certificazione di bilancio di genere, per esempio, è solo l’inizio. Si può ottenere già con il conseguimento del 65% degli obiettivi indicati da linee guida molto dettagliate, ma da lì si può migliorare ulteriormente.

La politica può fare qualcosa per stimolare le aziende a migliorare le loro pratiche di Diversity, Equity & Inclusion?
Le leggi ci sono: esistono le sanzioni disciplinari, le disposizioni contro le discriminazioni sul luogo di lavoro, quelle di tutela della maternità e la Legge Gribaudo. Più che politico, il problema è culturale.

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Lo riscontrate anche nelle aziende con cui lavorate?
Molto dipende dalle sensibilità personali del management e del cda che deve prendere le decisioni. Direi che non ho riscontrato differenze relative all’ubicazione geografica delle aziende, ma è innegabile che per il momento in Italia la partita della Diversity, Equity & Inclusion è in mano solo alle grandi aziende, che di solito sono più mature e hanno maggiori risorse da investire rispetto alla piccola e media impresa. Certamente, ci sono settori come le società ingegneristiche o di ITC, in cui la presenza femminile è ancora percentualmente poco rilevante, specie nelle posizioni apicali, e questo rende più complesso affrontare un percorso di reale inclusività.

In che modo riuscite a dimostrare ai vostri clienti che concrete politiche aziendali di DE&I possono rendere più efficiente ed efficace l’azienda stessa?
Sempre con l’analisi dei dati, e misurando i risultati nell’arco temporale di tre anni. Si tratta di processi che richiedono tempo per essere recepiti e realizzati in azienda e per dare risultati concreti. Faccio un esempio pratico: un’azienda che abbiamo seguito per il conseguimento della certificazione sul bilancio di genere ha compreso che – se vuole davvero colmare il gender pay gap – deve incentivare, con azioni mirate, la carriera dirigenziale delle dipendenti.

L’Italia è un Paese in cui esistono pesanti discriminazioni sul lavoro?
D’istinto risponderei che, sul fronte dei diritti, le persone sono spesso più avanti della politica. Da ciò che ho visto in questi anni, ma sottolineo che il nostro lavoro si è concentrato su aziende di grandi dimensioni, il tema della discriminazione, per esempio sulla base dell’orientamento sessuale, della provenienza geografica o della religione, non è un “tema caldo”.

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Un evento dedicato alla parità di genere cui ha preso parte anche Fulvia Astolfi come fondatrice di Obiettivo Cinque

Che cosa intende?
La realtà dei fatti supera il dibattito politico, e se spostiamo il focus sulle nuove generazioni che lavorano in azienda riscontriamo una sempre crescente consapevolezza dell’importanza dei diritti civili e della parità. Certamente, il nostro è un Paese in cui sono ancora troppo pochi i manager under 40 che possono fare la differenza nell’orientamento delle politiche aziendali: purtroppo, da noi conta ancora “avere il capello grigio” per raggiungere posti apicali. Sarebbe invece auspicabile un ricambio generazionale ai vertici, e un lavoro intergenerazionale nella fase decisionale: la diversità di punti di vista è sempre un arricchimento per l’azienda.

La Certificazione della parità di genere, una sorta di “bollino doc” che le imprese più virtuose possono richiedere su base volontaria, ha anche grazie agli incentivi previsti dal Pnrr riscosso molto successo: sono un migliaio le aziende italiane che, negli ultimi sei mesi, hanno avviato questa procedura. Come valuta questo fenomeno?
Sarebbe miope, lo ripeto, considerare la certificazione come un punto di arrivo e non un punto di partenza. Dobbiamo, invece, sfruttare le modalità della certificazione, strutturata su linee guida dettagliatissime su sei diverse macroaree, per capire come agire nel futuro prossimo. Rispetto solo a un paio di anni fa, sono stati compiuti molti passi avanti sul fronte dell’equità in azienda e dell’inclusione: ci sono leggi che prima non c’erano, sono stati introdotti nuovi incentivi, come quelli del Pnrr, ma siamo in cammino; nel nostro Paese c’è ancora molta strada da fare per una vera inclusione e parità in azienda. Il compito di una società di consulenza come la nostra non è solo quello di indirizzare i clienti al conseguimento della certificazione, ma di offrire una visione ad ampio raggio, indicando concreti percorsi di formazione volti a cambiare una cultura aziendale troppo a lungo rimasta ingessata e impermeabile al cambiamento.


Questo articolo è tratto dallo speciale Diversity, Equity & Inclusion di Business People di giugno 2023, scarica il numero o abbonati qui

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