Maurizio Zazzaro, con la passione ai piedi

Dopo un "matrimonio" di 22 anni con Microsoft, il papà italiano di Xbox è ripartito dalle calzature. La sua società offre prodotti personalizzabili destinati a durare nel tempo. Merito dell'antico saper fare italiano «che oggi c'è, ma rischia di scomparire»

Come comportarsi quando finisce un matrimonio? «Di sicuro non cercare di risposarsi subito». È questa la ricetta di Maurizio Zazzaro, che si è reinventato imprenditore a 50 anni passati dopo una lunga felice vita di coppia con Microsoft. Ex Regional Director, Retail Sales & Marketing Cee e Russia, dopo aver portato, tra le altre cose, la Xbox in Italia nei suoi anni da Country Manager tricolore (2001-2008), nel 2013 ha deciso di investire i successivi dieci anni della propria vita in una passione coltivata per anni: le scarpe. Quelle uniche della giovanissima Em Dzee. Un salto mortale che non ha spaventato di certo un laureato in Fisica, classe ‘61, che già da giovane aveva stravolto i piani dicendo no al Cern di Ginevra per iniziare una carriera industriale in Olivetti. Il suo segreto? «In un mondo in cui i cambiamenti sono impetuosi, la mente non può essere il solo strumento per pianificare», spiega a Business People, «ci vuole anche cuore e un po’ di… stomaco».

In cammino per il mondo

Dopo una vita dedicata alla tecnologia, come è avvenuto il ritorno alla bellezza antica dell’artigianato? Tutto nasce dalle opportunità. Le calzature mi sono sempre piaciute, ma in negozio non ho sempre trovato il modello “giusto”. D’altronde il numero di combinazioni di forme, disegni, modelli, pelli e suole è immenso. Dopo aver lasciato Microsoft, ho avuto il tempo e la fortuna di poter andare in giro e provare nuove cose: ho viaggiato, ho vendemmiato nella tenuta di un amico e ho conosciuto persone straordinarie che fanno le scarpe una a una. Mi hanno conquistato. E allora mi sono detto: se tutti fanno il percorso al contrario – dalla scarpa alla gestione manageriale (il brand, l’internazionalizzazione ecc.) – io che ho fatto per tutta la vita la seconda parte del lavoro, posso mettermi al servizio di questi prodotti, di un’idea diversa.

Quale? Gli oggetti non sono più beni da contare, devono avere un valore intrinseco. Una scarpa bella si nota, ma il fatto che sia “unica”, su misura, è un piacere tutto personale. Il mio cliente-tipo è una persona attenta e alla quale piace gratificarsi: cerca qualcosa in più dell’alta qualità, vuole l’artigianalità e non il semplice brand.

Come si comunica questo valore? Parlando con le persone. La mia azienda vende faccia-a-faccia, su appuntamento o durante road show negli alberghi, dove è possibile instaurare un rapporto personale. Il cliente non deve essere un esperto di scarpe, ma una persona curiosa che vuol capire perché un prodotto costa più degli altri (dai 900 ai 2 mila euro, ndr). Io comprendo le esigenze di ogni persona per “cucirgli addosso” il prodotto migliore, ma soprattutto racconto la storia di ogni scarpa. Così il momento dell’acquisto diventa anche un’occasione di conoscenza, un piacere almeno quanto il fatto di possedere un bel manufatto.

Qual è il messaggio che le sue calzature portano impresso? Mio padre non era un sarto, ma riconosceva una stoffa toccandola. Era un gesto naturale che noi abbiamo perso: guardiamo solamente, non ci poniamo il problema di capire. Il mio prodotto invece richiede attesa, fino a due-tre mesi dall’ordine, perché necessita di una lavorazione lunga dalle 30 alle 50 ore. Non è una “gamma”, è il frutto del lavoro di grandi artigiani. E può durare una vita, non si butta quando si consuma la suola. Carlo d’Inghilterra, che dicono sia talmente appassionato da lucidarsi personalmente le scarpe, è stato più volte avvistato con modelli vecchi di oltre 20 anni. Lui ne avrà molte più più paia di noi comuni mortali nell’armadio (si dice 50, ndr), ma sa che un bel prodotto può durare a lungo. Noi ce lo siamo dimenticato.

LA VITA DELLE AZIENDE SI RIDUCE:

BISOGNA ESSERE CURIOSI

E REATTIVI ALLE OPPORTUNITÀ

Quindi, il suo lavoro è anche quello di ridare valore alle cose… Cerco di valorizzare quello che c’è. Perché c’è ancora. Ed è importante conservarlo, fare in modo che la nuova generazione si interessi nuovamente a certi mestieri. Mi piacerebbe tantissimo che il know how degli artigiani esistesse anche tra mezzo secolo. Come negli ultimi 20 anni c’è stata una rivoluzione della consapevolezza nell’approccio al food, la moda deve percorrere la stessa strada. Sappiamo quanto vale l’italianità, ma spesso non sappiamo valorizzarla. Ci sfugge che questa ricchezza potrebbe andare persa se non viene tutelata, che non ci è stata assegnata per sempre.

Da manager a startupper. L’Italia è un Paese per imprenditori? Start up è una parola di moda e per questo spesso abusata. Ci sono start up che hanno successo solo se scalano velocemente il mercato, mentre la mia è più “tradizionale”: non ha necessità di crescere in fretta, ma ha più possibilità di durare nel tempo perché conosce davvero il cliente. Non ha enorme bisogno di risorse esterne e non si basa su un brevetto, ma punta su quello che sa fare una parte del nostro Paese. Non mi piace usare l’espressione “made in Italy”: quella è una scritta che si può stampare un po’ ovunque. Io quando vado a firmare l’interno di una scarpa, perché oggi modello è siglato a mano, scrivo «fatta e cucita a mano per il signor Mario Rossi in data…».

A furia di inseguire il sogno americano, stiamo dunque perdendo di vista le occasioni di sviluppo del Belpaese? Un’azienda può nascere in un humus favorevole o andarselo a cercare. Un’azienda tecnologica si trova meglio a Palo Alto che non nella provincia italiana. Mentre dal punto di vista delle scarpe, le Marche sono più favorevoli del Texas. È anche vero, però, che oggi la possibilità di fare networking, di studiare internazionalmente anche da remoto, è talmente ampia che l’aspetto geografico è sempre meno importante.

È questa la vera glocalizzazione? E come si fa a trovare la propria strada in questo mondo, a 20 anni come a 50? Bisogna avere la mente aperta: ogni incontro è l’occasione per imparare cose. La vita media delle aziende sta diminuendo, oggi è di sette-otto anni. Vuol dire che quando comincio l’università, una buona parte delle aziende in cui potrei finire a lavorare non esiste ancora. E una parte di quelle che mi piacciono, non esisterà più quando avrò finito gli studi. Per questo bisogna essere pronti a imparare, essere reattivi alle opportunità. Studiare è importante, ma deve essere uno strumento per fare network, per capire come ragionano altre culture, per conoscere più di un

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