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Ottimisti, malgrado tutto: intervista a Massimo Beduschi (GroupM Italia)

L’economia cresce o no? E l’occupazione? Qual è il livello di sicurezza dei mercati internazionali? E quanto la tecnologia si rivela disruptive? Come cambia il capitalismo con la concentrazione della ricchezza e dei dati nella Silicon Valley? A quanta privacy siamo disposti a rinunciare per essere social? Grandi e piccole questioni viste dall’ufficio di Massimo Beduschi, Ceo e Chairman di GroupM Italia, la media holding leader nel mondo negli investimenti pubblicitari

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Se l’andamento degli investimenti pubblicitari è il termometro che misura lo stato di salute di un sistema economico, chi questi capitali sceglie come e dove spenderli si trova in una condizione privilegiata per capire dove va, o vorrebbe andare, il Paese. Se non altro quello che produce e che spende in advertising, cioè le imprese. Ecco perché in una fase in cui l’economia tricolore non sa bene se deve piangere o sorridere, in cui i dati quotidiani di occupazione, pil, consumi, produttività industriale, sono ondivaghi, Business People ha pensato di intercettare il punto di vista di Massimo Beduschi, Ceo e Chairman di GroupM Italia. Per intenderci stiamo parlando della più grande società di investimento media al mondo (facente parte del gruppo Wpp, fondato dal mitologico sir Martin Sorrell, di cui Beduschi è Chief Operating Officer in Italia), che nel 2015 ha gestito nel nostro Paese un billing pari a 2,720 miliardi di euro. Ne viene fuori un affresco della situazione interna e internazionale ricco di spunti di approfondimento, ma povero di punti fermi a cui agganciare – purtroppo – la ripresa.

Beduschi, dalla tolda di comando di GroupM è possibile avere una panoramica piuttosto realistica degli umori del Paese. Che aria tira tra le aziende vostre clienti? C’è ottimismo, pessimismo, attendismo? Lei, a fine 2016, aveva rilasciato dichiarazioni speranzose. Sono state confermate dai primi tre mesi del 2017?
Credo che le dichiarazioni a cui lei si riferisce siano antecedenti agli esiti del referendum costituzionale, perché da quel momento è un po’ come se il lieve soffio di ottimismo che spirava nel mondo della comunicazione si fosse affievolito, spalancando le porte a una fase di incertezza. Si è passati dall’ottimismo cieco a un pessimismo altrettanto ingiustificato. Non a caso ci si aspettava un crollo in Borsa che non c’è stato, mentre ci si attendevano fulmini e saette dall’elezione di Trump, che invece ha spinto sulla leadership degli Usa in campo economico, fino a far volare Wall Street. In Europa, poi, resta tanta incertezza, con la Brexit ormai alle porte, l’Olanda che ha rischiato di finire nelle mani di un candidato estremista, per non parlare di quanto potrebbe accadere in Francia con la Le Pen, e poi le intemperanze del leader turco Erdogan, la Germania al voto, il continuo allarme sicurezza per la minaccia islamista. La stessa Chiesa ha capito che il mondo sta cambiando, anzi che è cambiato: Papa Francesco ha rotto ogni argine precostituito facendosi testimone attivo del nostro tempo.

E l’Italia?
Non siamo da meno in fatto di equilibrio precario. Siamo certamente un Paese con un’economia matura, dove le questioni in materia di lavoro sono continuamente oggetto di revisione (basti considerare l’ultima sui voucher), dove l’occupazione non è aumentata, ma almeno ha rallentato la disoccupazione, dove i consumi stentano e il pil non decolla. Poi il premier Paolo Gentiloni, che doveva essere a tempo e invece potrebbe chiudere la legislatura; la stessa opposizione – nella fattispecie i 5 Stelle – non sembra avere le idee chiare su un’alternativa di governo. E dove la mettiamo la nostra inconsulta tendenza gattopardesca per cui siamo alla perenne ricerca di un cambiamento affinché in realtà nulla cambi? Tuttavia, sono fondamentalmente, seppur moderatamente, ottimista. Anche se si può dire che i primi tre mesi dell’anno, in fatto di investimenti in comunicazione da parte delle aziende, siano stati freddini. Bisogna però considerare che il primo trimestre del 2016 era stato molto positivo.

Ma dopo un 2016 che ha visto crescere il mercato dell’1,7% (del 3%, se si includono le stime per il digital secondo Nielsen), questo rallentamento era previsto? Solitamente, un arretramento della spesa pubblicitaria coincide con una battuta d’arresto dei consumi e quindi dell’economia.
Era, almeno in parte, prevedibile. Anche perché stiamo parlando di un mercato polarizzato tra tv e digital, che racimolano da soli grosso modo il 75% della spesa totale delle aziende, e asfittico: se si considera la grandezza del nostro Paese e il numero di abitanti, 8 miliardi di euro di raccolta sono un risultato modesto. Questo rende il mercato ingessato e prevedibile. Perciò posso dirle che in un anno come questo, in cui non sono in calendario eventi sportivi, la tv terrà il punto, mentre il digital crescerà, grazie al contributo della solita coppia di “ignoti conosciuti”, ovvero Google e Facebook. La radio dovrebbe continuare a fare bene, la stampa soffre, ma soffre meno.

Nulla di nuovo sotto il sole, quindi.
Già, consideri che la performance positiva dei primi tre mesi dell’anno scorso è attribuibile in gran parte agli investimenti a supporto del rebranding di Tim.

Se basta un unico inserzionista a far cambiare di segno il mercato, è indice di quanto esso sia vulnerabile.
Infatti, se pensa poi che negli ultimi anni è stata soprattutto l’automotive a trascinare le performance, grazie alle immatricolazioni che adesso paiono rallentare, si renderà conto di quanto tutto si regga su un equilibrio difficile. Non ci resta che sperare nell’avvento del nuovo operatore telefonico Iliad, che con Free dovrebbe arrivare entro fine anno portando investimenti freschi. Come vede anche noi viviamo in una condizione di incertezza.

È questo il mood che si respira tra le aziende vostre clienti?
Purtroppo, sì. Così come percepiamo che le scelte economiche e strategiche riguardano ambiti temporali sempre di breve periodo, e che gli investimenti continuano a essere cambiati o tagliati in base alle sensazioni del momento e non in virtù di una progettualità di medio o lungo respiro. E l’incertezza genera altra incertezza. Non è un caso che diverse multinazionali abbiano preferito smettere di produrre in Italia per spostarsi altrove, limitandosi a lasciare nel nostro Paese delle mere sedi di rappresentanza commerciale.

Capisco, così com’è comprensibile che negli ultimi otto anni le aziende abbiano dovuto affrontare un’impari lotta per la sopravvivenza; ma non è anche vero che, da che mondo è mondo, ad avere la meglio sono le imprese che gettano il cuore oltre l’ostacolo, malgrado tutto anzi a dispetto delle contrarietà?
Non è mancato un po’ di coraggio?
D’istinto mi verrebbe di risponderle di sì, ma la questione è più complessa; perché i manager sono sempre più costretti ad agire in una logica di trimestrale in cui, per far quadrare i conti in un momento di consumi bloccati, resta loro l’unica alternativa di tagliare e risparmiare. Altra cosa invece sarebbe se parlassimo di eccellenze, che in Italia per fortuna non mancano nella meccanica come nel design dal food e alla moda. Vedi i Cucinelli, i Brembo, i Marchetti di Yoox, gli Alessandri di Technogym, i Farinetti di Eataly. Credo che da quest’ultime si possa trarre esempio e modello, se non altro per attrarre quegli investimenti internazionali che sono raggelati fuori dai nostri confini, a causa delle notorie pecche italiche, dall’evasione fiscale alla corruzione passando dall’instabilità politica. Oggi, se non amassi l’Italia come la amo e avessi dei figli in età da lavoro, non so se consiglierei loro di rimanere. Ci vuole coraggio, molto coraggio. Detto questo, per quanto mi riguarda, è proprio in un anno come l’ultimo, in cui abbiamo perso quote di amministrato, che ho insistito maggiormente affinché il mio network operasse degli investimenti: con i miei collaboratori ci siamo detti che se non approfittavamo del momento, trasformando un problema in opportunità, non lo avremmo fatto più.

Lei appartiene alla generazione dei Baby Boomer, è cresciuto in un’epoca in cui a scandire il tempo dell’economia globale era essenzialmente il prezzo del petrolio. Oggi, sul barile ha preso il sopravvento la tecnologia: sono la sicurezza e la privacy le commodity di riferimento.
on ne sono del tutto certo, perché – secondo me – la sicurezza dei dati e la privacy sono problemi delle nostre generazioni, che le nuove – dai Millennial in poi – hanno risolto con Snapchat e company. O comunque, sono disposte a rinunciare a un po’ della loro privacy per poter usufruire di strumenti che danno loro vantaggi prima inimmaginabili. Uber cambierà la nostra mobilità urbana, Google ha stravolto il nostro modo di informarci, Facebook di fare amicizia, Amazon di fare acquisti, Apple di usufruire di prodotti di intrattenimento. Si tratta di realtà che stanno cambiando il baricentro della nostra quotidianità e dove ci porteranno è difficile ancora stabilirlo, perché iniziano a presentare anche degli aspetti – come dire – patologici, dalle fake news al cyber bullismo, di cui solo adesso ci si comincia a occupare.

Anche voi centri media state subendo l’avvento di Google e Facebook. Rischiate di fare la fine dei tassisti per mano di Uber?
La tecnologia sta cambiando molti ambiti economici, facendone scomparire altri. E l’intermediazione non poteva rimanere esclusa. Sotto un certo punto di vista, per noi Google e Facebook potrebbero essere vissuti come competitor, perché impongono spesso logiche di disintermediazione e i clienti possono – se non in assoluto, almeno in parte – rivolgersi direttamente a loro per pianificare sul digital. Ma adesso anche realtà più tradizionali come Accenture fanno consulenza ai clienti per gestire in house l’acquisto degli spazi programmatic. Come vede gli assalti vengono da più fronti. Tuttavia, la nostra specificità relazionale, fatta di rapporti e contatti diretti e costanti col cliente, rappresenta un plus che l’approccio meramente tecnologico non offre. La capacità di fare ricerca e consulenza, e di applicarle alle singole esigenze di comunicazione aziendale, è una prerogativa solo nostra, che arriva da decenni di esperienza maturata sul campo. In più, pur non essendo società native tecnologiche, nulla toglie che anche noi ci si trasformi in aziende portatrici di servizi tecnologici. Diversi investimenti del nostro fondatore sir Martin Sorrell vanno appunto in questa direzione. Noi abbiamo uno know how per leggere i big data e trasformarli in scenari da cui trarre spunti e strategie da suggerire alle aziende. Così come per creare, in collaborazione con partner prestigiosi, contenuti da spendere sul web.

Quindi, è ottimista: non teme di perdere il posto… Che mi dice del fatto che questi operatori non si facciano rilevare e usufruiscano di escamotage “geografici” che si traducono in vantaggi fiscali?
Potrò anche perdere il posto, ma rimango ottimista… (ride) Ciò non toglie il fatto che queste piattaforme abbiano dimostrato di arrecare a persone e aziende più benefici che disagi. Il saldo è indubbiamente positivo. Altra cosa è l’aspetto fiscale e industriale. Wpp è in attività da 30 anni e fattura 19,4 miliardi di dollari, di cui 2,5 miliardi di profitto (prima delle tasse), per oltre 200 mila dipendenti. Facebook arriva a 27,6 miliardi di dollari, di cui 12,5 miliardi di profitto (sempre pre tasse), per circa 16 mila dipendenti. Guadagna perciò cinque volte Wpp con un dodicesimo dei suoi dipendenti. Stiamo parlando di aziende che fanno soldi con le macchine, non con il lavoro delle persone: server che vengono collocati fisicamente in un posto mentre i lavoratori stanno dove si pagano meno tasse. Si tratta di un meccanismo elusivo? Sì, ma è legale. Ecco perché ritengo che Bill Gates abbia detto una cosa sensata, proponendo di tassare i robot, che vale la pena di approfondire.

Il programmatic per voi è una minaccia o un’opportunità?
Entrambe. Perché si tratta di una tecnica di acquisto di spazi pubblicitari che, al di là dei benefici economici della transazione, porta con sé la possibilità di un tracciamento dei dati impraticabile con le altre modalità di gestione e acquisizione degli spazi. Nel pieno rispetto della privacy, noi oggi possiamo conoscere i percorsi dei consumatori e offrirgli sempre meglio ciò che gli serve. È un sistema però che genera non solo circoli virtuosi: perché se più una persona naviga e più capisco quello che gli interessa e quindi glielo offro, maggiore sarà il rischio che rimanga rinchiusa in un circolo vizioso di specializzazione, in cui saprà tutto su una sola cosa e poco o nulla di tutto il resto che la circonda. Eppure, la tecnologia consentirebbe alle nuove generazioni di crearsi una visuale più ampia del mondo, il problema però è: chi può imporre di rallentare a una macchina che è ormai lanciata a 200 km all’ora?

Tornando a parlare di mercato pubblicitario come termometro economico del Paese, nel 2009 lei aveva dichiarato che sarebbero dovuti passare dieci anni per recuperare i livelli di raccolta ante crisi: a 10 miliardi rispetto agli attuali otto. È ancora dello stesso avviso o nulla sarà più come prima?
L’obiettivo risulta effettivamente difficile, ma se si considera il fatto che attualmente non ci sono sistemi di misurazione precisi nell’area del web, che ancora mancano tre anni, e se ritroveremo un po’ della stabilità politica perduta, il traguardo potrebbe risultare possibile, non a 10 miliardi ma magari a nove. Ovviamente non li recupereranno tutti i mezzi in generale, ma sarà il digital a fare la parte del leone. Anche la tv manterrà il suo primato, forte della politica commerciale delle reti berlusconiane che ha regalato a questo mezzo un primato di cui hanno beneficiato da sempre anche gli altri broadcaster. Perciò la raccolta tv rimarrà almeno al 50% per i prossimi cinque anni. Inoltre, lo stato precario della distribuzione di fibra e banda larga nella Penisola rallenta la diffusione delle offerte online. Ma il digital è destinato a crescere tumultuosamente, basti vedere quanto un mezzo come lo smartphone sia diventato un prolungamento stesso degli utilizzatori, quasi una periferica delle funzioni umane. Stiamo vivendo un’era straordinaria: la tecnologia ha cambiato la nostra vita in tutti i sensi, con un’accelerazione imprevista fino a pochi anni fa in qualsiasi campo di attività dello scibile e del reale.

Converrà tuttavia che, malgrado tutto, l’uomo rimane quello che era occhio e croce 25 secoli fa. E in materia i Socrate, i Platone, gli Aristotele, i Pericle, la Grecia classica e la Roma antica hanno già in gran parte detto tutto quanto c’era da sapere.
Probabile, ma sono convinto che quella attuale sia per certi versi assimilabile a quell’era, solo che i Socrate e i Pericle di oggi sono nella Silicon Valley. Steve Jobs può essere paragonato a un Platone per il cambio di prospettiva – tecnologica e non certamente filosofica – che è riuscito a dare all’umanità, facendola salire di un gradino della scala evolutiva. Lei prima accennava a Uber, certamente c’è da mettersi nei panni dei tassisti che rischiano la loro fonte di sostentamento, detto questo non si può fermare la spinta tecnologica: oggi è Uber, domani saranno le auto senza autista. Vogliamo parlare di quello che comporta per le agenzie di viaggi Airbnb? Poi c’è chi ancora ironizza sul machine learning, quando ormai sono in tanti a pensare che il processo di apprendimento autonomo delle macchine potrebbe comportare il sorgere di un’intelligenza in grado di autoderminarsi. Ci stiamo chiedendo a sufficienza come e se l’umanità sarà in grado di gestirla? Uno scienziato come Stephen Hawking nutre seri dubbi. Consideri che, a fronte di un saldo negativo dal punto di vista del lavoro, la tecnologia ha accentuato la concentrazione di ricchezza in mano di pochi: Mark Zuckerberg ha un patrimonio che si aggira intorno ai 50 miliardi di dollari. Stanno cambiando alcuni capisaldi dell’economia capitalistica, e forse non in meglio.

Quanto dice è molto interessante, ma in tutto questo come sono messe le aziende italiane?
Al netto di qualche eccezione, faticano sulla digital trasformation. E mi tocca dire che tuttavia questo è uno degli ambiti in cui il nostro lavoro può fare la differenza, aiutandole a comunicare bene quello che fanno e rappresentano. Il che non deve essere considerato una moda: gli altri lo fanno, lo facciamo anche noi. Comunicare, darsi un approccio digitale al mercato è un’esigenza, una priorità in una fase in cui i consumatori sono sempre più digitalizzati. Ne va della loro capacità competitiva.

Perché l’online è potenzialmente una chance per farsi conoscere non solo sui mercati nazionali, ma su quelli globali.
Certamente, e molte eccellenze italiane la stanno cogliendo. Bisogna trasformare tutto questo però in cultura digitale diffusa. Dopo di che c’è da dire che queste aziende hanno dalla loro soprattutto la capacità di realizzare prodotti di assoluta maestria, mi vengono in mente Ferrari piuttosto che Technogym, che spiccano se rapportati a livello competitivo. Per la qualità e la bellezza che propongono il digitale è stato solo un acceleratore: è l’ingegnosità dell’uomo ad aver fatto la differenza.

Un’altra cosa: mi spiega perché aziende e pubblicitari hanno questa fissa per i Millennial? Non si parla d’altro. Si sta rasentando lo “stolkeraggio”…
È vero (ride), e dire che è la generazione di trentenni più squattrinata di sempre. Scherzi a parte, è certamente un target ambito perché – essendo il primo nativo digitale – è anche il più sfuggente. Su di loro si stanno parametrando prodotti e comunicazione perché sono i primi di una categoria di consumatori assolutamente nuovi, che va soddisfatta e ingaggiata. Ecco perché ci piacciono così tanto. E dopo di loro tocca ai Centennial…

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In quanto Ceo e Chairman di GroupM Italia dall’aprile 2014, Massimo Beduschi è a capo di tutta una serie di agenzie media, da Mec a Mindshare passando per Mediacom, Maxus, Media Insight e Kinetic, che adottano soluzioni, tecnologiche e non, a sostegno del business delle aziende inserzioniste loro clienti