Il sogno dell’auto

Dai primi passi alle corse automobilistiche. Ecco come nacque il successo della Fiat e di Giovanni Agnelli, il fondatore della dinastia

Quello che sarebbe diventato il Signor Fiat incominciò la sua carriera a cavallo. Giovanni Agnelli, il primo, il fondatore della dinastia, nato a Villar Perosa nella provincia torinese nel 1866, dopo la scuola al Collegio San Giuseppe di Torino andò all’Accademia militare di Modena e da qui alla scuola di applicazione di Pinerolo (To), quella del Savoia cavalleria, dalla quale uscì ventenne con il grado di sottotenente. Di famiglia molto agiata, di possidenti terrieri piemontesi, non aveva evidentemente una grande passione per la vita militare, visto che dopo solo quattro anni abbandonò l’esercito e andò a Villar a curare gli interessi di famiglia. Aveva già però qualche inclinazione imprenditoriale perché non si limitò ad amministrare i possedimenti di casa, ma aprì anche un’attività di commercio di legnami e sementi. Non un granché intendiamoci, però sempre meglio che limitarsi a fare il figlio di papà come tanti suoi coetanei simili a lui per cultura e censo. Appassionato di meccanica, tentò alcune iniziative industriali nel settore, anche se con poca fortuna: segno comunque che anche la vita tranquilla e agiata del possidente terriero, come quella dell’ufficiale del regio esercito, non era fatta per lui. Voleva altri stimoli, cercava altre sfide.La Torino dell’epoca, dove andò a vivere lasciando la campagna, era ai primi passi della sua avventura industriale. Nascevano officine, fabbriche. Una di queste era stata fondata in una specie di magazzino in corso Vittorio Emanuele, nel centro della città, da Giovanni Battista Ceirano, un cuneese con il virus della meccanica. Questo signore si mise a produrre biciclette a motore con il marchio Welleyes, nome strano per un prodotto italianissimo, ma che aveva dietro un’idea di marketing: Ceirano sapeva che gli stranieri, gli inglesi soprattutto, erano immensamente più avanti in quel tipo di tecnologie e pensò che il pubblico avrebbe preferito un marchio con assonanza estera, anche se non significava assolutamente nulla. E il pubblico lo gradì. Le Welleyes di Ceirano ebbero un enorme successo, tanto che il suo proprietario pensò di poter fare il passo successivo, realizzando il suo vero sogno: produrre un’automobile. Ma le quattro ruote erano allora l’hobby elitario di un ristretto gruppo di ricchi: il mercato potenziale era minimo. Ceirano ebbe subito difficoltà finanziarie dopo aver prodotto un unico esemplare. Dei suoi sforzi comunque si parlava nella Torino che contava e che spesso si incontrava per discutere di affari in un caffé elegante del centro, il Burello. Proprio in quel locale Agnelli venne a sapere che Ceirano cercava finanziatori e decise di entrare in società rilevandola poi totalmente. E sempre lì, un gruppo di altri pionieri con il sogno dell’automobile pensarono di mettersi insieme per fondare una nuova società e realizzare il loro progetto. Agnelli si unì a loro e l’11 luglio 1899 venne fondata la Fabbrica Italiana Automobili Torino, alla quale venne conferita anche la Ceirano. La Fiat partì con un capitale sociale di 800mila lire, incominciò la sua avventura con una cinquantina di operai in uno stabile di corso Dante a Torino, lo stesso dove adesso c’è il centro storico e dove per anni si sono tenute le assemblee degli azionisti del gruppo.Agnelli, che all’inizio aveva solo il ruolo di segretario della nuova impresa, divenne ben presto il numero uno assoluto assumendo la carica di amministratore delegato e diede alla Fiat un’impostazione che l’ha seguita in tutta la sua storia, fino a oggi. L’ex tenente di cavalleria non era propriamente un intellettuale, però aveva una buona cultura e molta curiosità: si informava, guardava quello che succedeva nei Paesi più avanzati. Guardava alla Francia, all’Inghilterra, ma soprattutto all’America: e vedeva che lì, oltreoceano, l’automobile non era più il giocattolo chic di un piccolo gruppo di signori con tanti soldi da spendere e tanto tempo da perdere, stava diventando qualcosa di estremamente diverso, un prodotto sempre più diffuso anche fra la borghesia che viveva proprio in quegli anni le prime fasi del sogno americano. L’auto faceva parte di quel sogno. Agnelli pensò che anche l’Italia, seppure infinitamente più arretrata degli Stati Uniti, presto o tardi ne avrebbe seguito la strada. Quindi si attrezzò e si organizzò per la produzione in serie. Inoltre per diffondere la cultura delle quattro ruote decise di far partecipare la Fiat alle principali corse automobilistiche (già allora quelle competizioni attiravano l’interesse del pubblico, anche se non erano la Formula Uno). E lo fece con grande successo: i giornali inglesi dell’epoca, dopo una lunga serie di vittorie consecutive della casa torinese, usarono l’acronimo per definire la Fiat “First In All Trials” (vale a dire prima in tutte le gare). Molto da gentlemen. E molto diverso dalla distorsione dello stesso acronimo che la Fiat avrebbe subìto molti anni dopo, quando era in difficoltà e produceva modelli ritenuti poco affidabili, e il suo marchio veniva dileggiato così: “Fix It Again Tony”, cioè rimettila a posto Tony. Uno sfottò. Le corse portarono anche a un allargamento del business di Agnelli: i regolamenti dell’epoca prevedevano che tutti i componenti delle auto in gara fossero di produzione nazionale, e non essendoci in Italia cuscinetti a sfera di livello qualitativo adeguato, fondò una fabbrica apposta per produrli, la Riv. Un’azienda che si affermò subito anche a livello internazionale: anni dopo, nel 1932, sarebbe stata scelta dal governo dell’Unione Sovietica per realizzare un impianto per la produzione di cuscinetti a sfera in Urss.E questo fu solo un episodio dell’impressionante espansione che la Fiat ebbe da allora in poi. Alla produzione di auto si aggiunse quella di autobus, autocarri, grandi motori per navi e aerei, tanto che la pubblicità dell’epoca diceva: “Fiat: mare, cielo, terra”. L’espansione andò anche oltre: con la guerra libica del 1911 vennero costruiti i primi carri militari e la produzione bellica si ampliò quando l’Italia, nel 1915, partecipò al primo conflitto mondiale. E ancora: Agnelli decise di entrare pesantemente nella siderurgia comprando alcune società del settore e creandone di nuove. Questo per realizzare un modello industriale di tipo verticale, con il ciclo che partiva dalla materia prima, come l’acciaio, per arrivare al prodotto finito, come l’auto, il camion, il motore di un aereo. Una scelta strategica non casuale, ma meditata accuratamente. Dal 1912 e fino al 1935 Agnelli fece vari viaggi negli Stati Uniti e venne a contatto con la Ford: rimase impressionato da quello straordinario sistema produttivo che prese a modello e trasferì sulle rive del Po. Di cultura fordista è anche l’immenso stabilimento che fece costruire per rispondere alla continua espansione produttiva della Fiat: il Lingotto, entrato in funzione nel 1921, il più grande impianto industriale dell’Italia dell’epoca che oggi funziona come centro culturale (congressi, Auditorium, pinacoteca che custodisce la collezione regalata dalla famiglia Agnelli).In quegli anni Agnelli lasciò la carica di amministratore delegato a un suo collaboratore e assunse quella di presidente. Scelta che fu solo apparentemente formale. L’azienda ormai era stata creata, funzionava, i suoi prodotti avevano successo, la Fiat vedeva aumentare ogni anno il fatturato e l’utile distribuito agli azionisti. Una realtà di tali dimensioni era qualcosa che superava i cancelli della fabbrica e legava la sua crescita alle sorti del Paese: per la prima volta ci voleva un capo che fosse anche politico. Quelli erano anni davvero difficili: la Torino del primo dopoguerra conobbe la nascita di un movimento operaio agguerrito e combattivo che nel 1920 arrivò a occupare le fabbriche. Agnelli in una prima fase cercò di cavalcare quell’onda arrivando a proporre la trasformazione della Fiat in una cooperativa. Ma subito cambiò strategia e divenne l’avversario numero uno del movimento sindacale e operaio organizzando la serrata degli stabilimenti. Intanto si stava affermando a livello politico il fascismo verso il quale Agnelli manifestò subito simpatia. Tanto che dopo la marcia su Roma del 1923 venne nominato da Benito Mussolini senatore del Regno. «Giovanni Agnelli era un grande ammiratore del Duce» ha detto recentemente Francesco Storace, uno che della questione si intende «lo considerava il più grande statista apparso nel mondo negli ultimi anni». Il fascismo – è innegabile – diede un’ulteriore spinta all’espansione della Fiat: un protezionismo quasi assoluto difese i produttori nazionali, e dunque in primo luogo la casa del Lingotto, dalla concorrenza straniera; i dazi sulle automobili importate arrivarono a superare aliquote del 100% e nei confronti di alcuni Paesi vennero addirittura introdotti dei contingentamenti. Con simili aiuti, è chiaro che la Fiat andò a gonfie vele permettendo ad Agnelli di entrare anche in altri settori: nel 1927 nacque l’Ifi (Istituto finanziario industriale) che divenne la cassaforte di famiglia dentro la quale, oltre al pacchetto di controllo Fiat, c’erano anche tutte le altre partecipazioni nei settori bancario, finanziario, assicurativo, turistico (la stazione sciistica di Setrière). Insomma l’impero Agnelli che, nato con la Fiat, era diventato una parte essenziale dell’economia nazionale.Alla fine della guerra, Agnelli venne accusato di collaborazionismo con il passato regime fascista e fu anche privato, per un certo periodo, della titolarità delle sue azioni. Tutto poi rientrò, si normalizzò, ma lui non fece a tempo a vederlo perché nel dicembre del 1945 morì.La sua fabbrica, la Fiat, intanto si preparava al grande boom del dopoguerra. Ai vertici c’era un manager, Vittorio Valletta, perché i figli del fondatore non c’erano più: Aniceta morì nel 1928 ed Edoardo nel 1935 in un incidente aereo. Il figlio di quest’ultimo, Giovanni come il nonno fondatore, che sarebbe diventato famoso come l’Avvocato non era ancora abbastanza maturo per prendere il posto di comando. Lo sarebbe diventato negli anni ‘60 e avrebbe guidato la Fiat, affiancato da molti manager, fino quasi alla sua morte. Ora a rappresentare la famiglia ai vertici dell’impero c’è John Elkan, figlio di Margherita, la primogenita dell’Avvocato. A lui toccherà decidere dove guidare in tempi così difficili quella fabbrica di automobili che oltre un secolo fa fu fondata, quasi per una scommessa, dal suo trisavolo.

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