Cura Marchionne, una terapia d’urto

Il professore della Tuck School of business, Sydney Finkelstein, famoso per non avere peli sulla lingua, spiega perché ha stilato il libro nero degli uomini che non hanno dimostrato capacità di leadership, e traccia anche i profili di chi vincerà nonostante la crisi. Tra questi, il numero uno del Lingotto. Un esempio da non sottovalutare...

Sydney Finkelstein, professore di management alla statunitense Tuck School of business di Hanover, nel New Hampshire, è una persona abituata a parlare chiaro, a fare nomi e cognomi. Come quelli dei peggiori ceo del 2011, cioè i cinque capi d’azienda che Finkelstein ha voluto inserire in una lista pubblicata qualche mese fa nel suo blog (sydneyfinkelstein.blogspot.com) e su Twitter (@sydfinkelstein), senza nessun timore reverenziale verso alcuni personaggi illustri della business community d’Oltreoceano. La classifica dei peggiori CeoNella classifica del professore, infatti, ci sono nomi noti come Mike Lazaridis e Jim Balsillie, i due numeri 1 di Research in Motion (Rim), gruppo canadese che ha inventato il Blackberry. E ci sono pure Reed Hastings, ceo Netflix, azienda Usa attiva nei servizi di noleggio di Dvd e di videogiochi via Internet, e Jon Corzine, ex a.d. del broker di derivati Mf Global, finito in bancarotta nel novembre 2011. Senza dimenticare Leo Apothekar, ex leader del colosso dell’informatica Hp che chiude la classifica dei peggiori ceo del 2011 preceduto di poco, e inaspettatamente, dal capo di un’organizzazione non profit: Graham Spanier, ex-presidente della Pennsylvania State University, sospettato di non essere intervenuto per punire un caso di molestie sessuali all’interno dell’ateneo. Sono storie professionali diverse, quelle analizzate da Finkelstein, che hanno però un denominatore comune: l’incapacità dei manager di reagire alle sfide del mercato, di capire che le loro imprese e organizzazioni rischiavano di imboccare irrimediabilmente la strada del declino. Sono errori in cui si imbattono anche manager di primo livello e che il professore statunitense ha voluto analizzare qualche anno fa, nel best seller: Why smart executives fail (Perché i bravi manager sbagliano, pubblicato in Italia da RizzoliEtas). In questa intervista a Business People, Finkelstein spiega le ragioni che spesso portano i dirigenti d’azienda sulla strada sbagliata, ma non rinuncia a indicare anche qualche esempio positivo, manager virtuosi da prendere a modello. È il caso del numero 1 di Amazon, Jeff Bezos, del leader del gruppo Novartis, Joe Jimenez e, per certi aspetti, anche dell’a.d. di Fiat-Chrysler, Sergio Marchionne.

Professor Finkelstein, perché ha scelto di compilare la lista dei peggiori Ceo del 2011?Innanzitutto per una ragione professionale: dopo la pubblicazione del mio libro, ho sviluppato un’intensa attività di consulenza per i manager delle aziende che vogliono migliorare i propri risultati.

Dunque?Mi sono subito reso conto che, in questa mia attività, poteva essere utile identificare quei dirigenti che, in passato, si sono dimostrati inefficaci nel guidare la propria impresa. È un modo intelligente per indicare ai manager la strada giusta da seguire, per aiutarli a capire cosa bisogna fare o non bisogna fare, quando si è a capo di un’organizzazione complessa come un’azienda.

Solo per questa ragione?No. In realtà c’è anche un altro motivo: a chiedermi di compilare la lista dei peggiori Ceo dell’anno sono stati anche parecchi mass media, che hanno identificato in me la persona giusta per farlo. Negli ultimi dieci anni, infatti, sono stato probabilmente lo studioso che ha speso maggior tempo ad analizzare le ragioni del fallimento di molte organizzazioni aziendali.

Quando il Ceo di un’azienda può essere considerato un manager di cattiva qualità e pieno di difetti?Senza dubbio quando non è capace di adattarsi in tempo reale ai cambiamenti. Molti manager spesso nascondono la testa sotto la sabbia, ignorano i segnali che arrivano dall’ambiente che li circonda, sottovalutano le difficoltà e non sanno ascoltare veramente i loro clienti. Questi difetti e queste debolezze sono la principale ragione del fallimento di un’impresa.

Tutto ruota attorno alle debolezze personali del Ceo, insomma…Direi che i difetti individuali del manager sono il fattore più importante. Al vertice delle imprese, il margine di errore per chi ha posizioni di alta responsabilità è assai ridotto, perché la competizione tra le aziende è veramente molto elevata. Chi non riesce a dominare le proprie debolezze e permette ai pregiudizi personali di influenzare le proprie decisioni in campo lavorativo, porta inevitabilmente le imprese al fallimento, anche se si tratta di manager apparentemente intelligenti e capaci.

Quando, invece, il Ceo di un’azienda può essere considerato un grande manager?Quando possiede le caratteristiche opposte a quelle che ho appena descritto, cioè sa adattarsi ai cambiamenti, soprattutto di fronte a eventi imprevisti. Un’azienda non deve mai accontentarsi dello status quo, anche se ha raggiunto una posizione di leadership incontrastata. Per un’impresa di successo, reagire ai mutamenti che si verificano nell’ambiente circostante è una necessità imprescindibile. I Ceo che fanno tesoro di questo insegnamento, possono indubbiamente essere considerati dei grandi manager.

E allora perché non fare anche qualche esempio positivo? Può indicarci il nome di qualche grande manager o imprenditore?Volentieri. Jeff Bezos, fondatore di Amazon, può essere considerato un grande Ceo.

Perché?Bezos non è stato soltanto un grande imprenditore agli inizi della carriera, ma ha saputo anche guidare la sua azienda in un percorso di crescita, trasformandola da piccola impresa a grande multinazionale. Inoltre, grazie allo spirito del suo fondatore, Amazon continua a puntare sull’innovazione e cerca continuamente nuove opportunità per migliorare se stessa. In altre parole, Bezos è uno che non si accontenta dello status quo.

C’è qualche altro Ceo che le piace particolarmente?Certo. Un altro esempio positivo è Joe Jimenez, numero 1 del gruppo farmaceutico Novartis. È in carica da poco, dal 2010, ma è già riuscito a ottenere ottimi risultati.

Che cosa ha fatto, di preciso?È riuscito a ridurre i costi e a semplificare i processi aziendali inefficienti, senza compromettere la capacità dell’azienda di essere innovativa, in tutti i settori e in tutti i segmenti di business in cui è presente. Credo che, a suo favore, abbiano giocato due fattori: il suo grande orientamento al marketing, oltre alla sua vasta esperienza nel settore farmaceutico.

Ci sono dei top manager italiani che le piacciono o che non le piacciono?Purtroppo, non sono in grado di rispondere a questa domanda, perché non conosco abbastanza la realtà del vostro Paese.

Non può dire nulla neppure sull’operato di Sergio Marchionne, numero 1 del gruppo Fiat-Chrysler? Lui, in America, ormai è un nome famoso…Anche su questo punto non posso esprimermi più di tanto, perché non conosco benissimo l’argomento. Posso però dire una cosa: so che Sergio Marchionne lavora con creatività e impazienza. È un fatto molto positivo.

Perché?Queste due qualità, assieme, sono la giusta combinazione per creare un grande manager. Avere un amministratore delegato come Marchionne rappresenta un’iniezione di fiducia per Chrysler, e per i suoi dipendenti.

La “cura Marchionne”, dunque, è la medicina giusta?In un certo senso, può essere considerata una terapia d’urto, dopo la fase di debolezza, che ha caratterizzato Chrysler per tantissimo tempo, anche quando era diretta da un top management di primissimo piano o quando gli azionisti della società erano il gruppo Daimler e i fondi di private equity. Con Marchionne alla guida, sono più fiducioso sulla possibilità di risanamento e ristrutturazione della società.

Si intitola Why smart executives fail (Perché i bravi manager sbagliano, pubblicato nel nostro Paese da RizzoliEtas) il libro scritto dal professor Sydney Finkelstein nel 2003, che ha registrato un grande successo, tanto da poter essere considerato un bestseller

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