Adriano Grosoli: intervista al signore dell’aceto balsamico

A 91 anni, è l’ultimo sopravvissuto dei quattro imprenditori che hanno creato il mito dell’oro nero di Modena. Così l’Italia può prendere esempio dalla sua azienda per affrontare la crisi in corso

Lo scorso 2 maggio ha compiuto 91 anni un ”grande vecchio” dell’aceto balsamico tradizionale, l’oro nero di Modena, ovvero Adriano Grosoli, l’ultimo sopravvissuto dei quattro imprenditori modenesi che nella seconda metà del Novecento hanno creato un mito (gli altri erano Giorgio Fini, Giuseppe Giusti ed Elio Federzoni). Un universo artigianale prestato, e in parte travolto dall’industria, che fino al 1980 vedeva soltanto questi produttori sulla scena. Da “affare di famiglia” e importante elemento per la “dote” nei matrimoni, Adriano Grosoli e gli altri tre imprenditori riuscirono a trasformare l’oro nero della food valley emiliana in un’eccellenza del made in Italy, imitato ovunque ma irraggiungibile per gusto, complessità e stratificazione di leggende e significati.Grosoli è nato nel 1929 e durante la II Guerra mondiale ha dovuto occuparsi degli affari di famiglia intrapresi nel 1891 dal nonno, che comprendevano una macelleria, una trattoria e un negozio di prodotti tipici modenesi, tra cui l’aceto balsamico chiamato “Aceto Balsamico del Duca”. Tra i tanti, decise proprio di investire su quest’ultimo, nel momento in cui cominciava a svilupparsi la grande distribuzione organizzata in Italia, e non stupisce che nel 1965, in occasione della riorganizzazione legale del settore, sia stato uno dei primi a combattere affinché questo aceto fosse riconosciuto legalmente e, di conseguenza, salvaguardato. Quello che infatti oggi viene correntemente venduto come balsamico nei supermercati è un prodotto completamente diverso dal vero e proprio “aceto balsamico tradizionale”, che prevede tempi lunghissimi di affinamento (fino a 25 anni) e un profilo organolettico di una complessità unica al mondo. Fu alla fine degli anni ‘60 che Grosoli avviò la procedura per la licenza ministeriale per la produzione, ottenuta solo nel 1974. Poi, nel 1993, è stato uno dei fondatori del Consorzio. Nel corso della sua vita ha visto e affrontato tutto ed è dal suo esempio che l’Italia può prendere spunto per i difficili mesi che le si prospettano.

Guerre, terremoti e ora una pandemia, come è sopravvissuto l’aceto balsamico a tutto questo? È sopravvissuto grazie ai modenesi, gente concreta e operosa, che mentre guarda avanti non dimentica da dove viene: dopo il terremoto del 2012, con molte delle nostre più vecchie acetaie distrutte e con il lavoro di nonni e padri schiacciato dalle macerie, il primo obiettivo è stato rimettere in piedi case e attività per guardare avanti, ripartire. Il recupero delle botti, che sono parte della storia della famiglia, è divenuto simbolo della resilienza e della determinazione dei modenesi. Ai tempi della Guerra, il balsamico era solo un affare di famiglia, oggi non più: negli ultimi 30 anni ha dato vita a un comparto produttivo di primaria rilevanza per l’economia del territorio che, con il suo export di oltre il 90%, è diventato uno degli ambasciatori dell’Italia nel mondo. Ora che viviamo la crisi del Covid-19, credo che ancora una volta gli imprenditori modenesi, insieme ai colleghi venuti da fuori a investire nella nostra provincia, sapranno cogliere nella nuova emergenza un’occasione per proporre ulteriori modalità di utilizzo ma, spero, soprattutto, per ripensare le strategie di commercializzazione, che dovranno tendere a una valorizzazione maggiore del suo legame con il territorio modenese.

In materia di bistrot e alta cucina, da sempre alleate della qualità, quali sono stati gli impieghi di balsamico più creativi cui ha assistito? Quando ho deciso di concentrare la mia attività sul balsamico, il prodotto veniva utilizzato esclusivamente come condimento, pertanto anche la strategia di vendita era incentrata sul presentarlo come un sostituto di alto livello dell’aceto di vino. L’evoluzione della cucina e la crescita degli chef, sempre più innovatori sia per le tecniche che il gusto, ha trasformato un semplice condimento in un ingrediente con un’identità ben definita, capace di contribuire al successo di piatti della tradizione – non solo modenese – rivisitati e rinnovati. Ciò anche grazie alla sua grande versatilità e alle svariate possibilità di tipologie che spaziano dal Balsamico Igp Classico – più acidulo e fluido, utilizzato per vinaigrette e in cottura – al Tradizionale Dop invecchiato oltre 25 anni e impiegato come rifinitore ed esaltatore di piatti. Io rimango, però, legato ai piatti con il sapore della mia infanzia e giovinezza (mia mamma era una cuoca raffinata), quindi lo preferisco come rifinitore a crudo di una semplice frittata con le verdure di stagione, a gocce sui tortelloni di ricotta conditi con burro e parmigiano, o sul bollito in abbinamento a una cipollina agrodolce. Vedo che anche i nuovi consumatori apprezzano maggiormente il prodotto nelle sue presentazioni più semplici: fra tutte l’abbinamento con il gelato alla crema.

L’Aceto balsamico tradizionale ha bisogno di tempo e il tempo è la variabile umana che ha subito più modifiche nel corso della storia: cosa possiamo imparare da questo lavoro e tradurlo nelle nostre vite?Quando accogliamo i visitatori in acetaia, per far comprendere la singolarità della produzione del Balsamico, proponiamo sempre il parallelismo che esiste tra il dare alla luce, accudire e far crescere, un figlio fino al momento in cui lo lasceremo andare a seguire la sua vita e l’avvio della batteria di piccole botti al momento della sua nascita. Credo che non si possa, né si debba, tornare indietro: difficilmente le nostre vite potranno ritornare ai ritmi di quando ero giovane io, ma sarebbe già un bel risultato se riscoprissimo alcuni degli elementi indispensabili per ottenere un buon Balsamico – la pazienza, la cura e la passione – e li utilizzassimo maggiormente nelle nostre relazioni. Chissà che la pandemia, oltre al dolore e alla paura, non ci lasci anche in eredità questo nuovo approccio alla gestione delle nostre giornate.

Negli anni ‘60, la produzione dell’aceto balsamico ha fatto un salto di qualità da dimensione familiare a industriale ed elemento di punta della food valley. Conciliare questi aspetti può essere una chiave per gli sviluppi futuri dell’economia italiana? Ovviamente, quando la richiesta del prodotto era in crescita esponenziale, ci si è dovuti occupare dell’aspetto produttivo. Siamo cresciuti piuttosto velocemente e ogni anno facevamo consistenti investimenti in barili e tini di legni pregiati, come quelli del maestro Renzi di Modena. Le materie prime erano locali, ma dovevamo cercare produttori in grado di fornirne quantità consistenti e non era facile. Siamo riusciti a conciliare la grande crescita con la piccola dimensione precedente solo lavorando molto e con impegno, aumentando dimensione e numero di addetti, ma mantenendo salda l’attenzione alla qualità del prodotto e alla cura della confezione. Oggi molti altri settori economici stanno vivendo sfide simili e la crisi causata dal Covid-19 ha reso tutto più complicato: siamo però comunque convinti che un buon prodotto, presentato bene e al giusto prezzo, non possa che riscuotere un successo crescente. Certo, allora avevamo l’arma della svalutazione della Lira, ma credo che il nostro lavoro debba sempre basarsi su promozione, racconto della nostra storia, spiegazione delle tecniche produttive ed esempi di utilizzo, oltre alla tutela dai prodotti imitativi.

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