A caccia di frutti

A tu per tu con una donna che da 30 anni si occupa di riprodurre, nel suo podere perugino, antichi esemplari di un patrimonio naturale e culturale di pregio andato dimenticato con l’avvento dell’agricoltura industriale

Prendersi cura della biodiversità vegetale, del sapere tradizionale, della memoria contadina. Animata da questo proposito, Isabella Dalla Ragione, classe 1957, una laurea in Agraria, ha dato vita tre anni fa, nella sua nativa Umbria, alla Fondazione Archeologia Arborea Onlus, sostenuta dall’Università di Perugia, da Bioversity International e da Fao. Suo scopo principale, la tutela del prezioso “frutteto-collezione” che ha creato nella sua tenuta di San Lorenzo di Lerchi, nei pressi di Città di Castello (Pg): otto ettari dove sono ospitati 500 alberi delle specie più note (meli, peri, susini, ciliegi) e 150 varietà di frutti antichi, salvati dall’inesorabile estinzione. Un progetto avviato già 30 anni fa dal padre Livio, studioso di tradizioni rurali, scomparso nel 2007. Fu con lui che, fin dagli anni ‘80, Isabella iniziò la sua ricerca certosina e appassionata su tutto il territorio nazionale, passando dalla (ri)scoperta di antiche piante dimenticate e un tempo, invece, molto diffuse e apprezzate, alla creazione del suo personale «museo naturale a cielo aperto». The Fruit Hunters, “cacciatori di frutti”: così i Dalla Ragione sono stati definiti nell’omonimo film-documentario a loro dedicato, diretto dal regista Yung Chang e presentato nel 2012 al Festival di Berlino.

Di Archeologia Arborea si è occupata anche la stampa estera, dal New York Times al Frankfurter Allgemeine Zeitung. Attori come Bill Pullman e Gérard Depardieu sono stati a visitare la sua oasi. Al di là dei ritorni d’immagine, che aiuti concreti ha ricevuto? Ci supportano fondamentalmente privati: amici, conoscenti, chiunque abbia a cuore il progetto. Un piccolo sussidio arriva dalle quote dei soci, a cui è permesso di adottare una pianta, scelta tra quelle ancora “orfane” della collezione. È il caso dei personaggi famosi citati: un’idea per far sentire le persone coinvolte nell’iniziativa. Un contributo per far nascere la fondazione è arrivato, inoltre, da un’impresa italiana come Valfrutta, che tuttora ci sostiene. Non si annovera ancora la presenza di enti pubblici, non perché non li vogliamo, ma perché, solitamente, tendono a muoversi con grande circospezione…

Quanto è impegnativo, a livello economico, recuperare le varietà, innestare le gemme, coltivare, provvedere alla potatura e a tenere in ordine il suo podere? Di per sé, gestire la manutenzione ordinaria del frutteto comporta un costo modesto, circa 18-19 mila euro all’anno. Poi, però, ci sono delle attività nelle quali sarebbe opportuno che fossimo supportati. Mi riferisco alle visite nella tenuta, molto richieste soprattutto da turisti stranieri in Italia, che vengono a trovarci appositamente. La nostra vocazione primaria, infatti, non è produttiva, ma legata alla divulgazione e alla promozione della biodiversità. Noto sensibilità e attenzione rispetto a questi argomenti, ma, quando si tratta di intervenire in modo concreto, il discorso cade nell’indifferenza.

Cosa la spinge a condurre la sua “caccia archeologica”? Mi interessa la salvaguardia del patrimonio genetico di piante che vengono da molto lontano, nel tempo. È estremamente interessante mantenerle in vita, non solo per l’aspetto naturalistico. Esse rappresentano anche le nostre radici culturali e gastronomiche. Dopo la II Guerra Mondiale, da un’agricoltura contadina e di sussistenza si è passati a un’agricoltura industriale. Parallelamente, il mercato si è allontanato dai luoghi della produzione: si sono dovute coltivare varietà che si potevano trasportare per chilometri e chilometri. Il nostro Paese è stato il secondo produttore mondiale di pere fino a tre anni fa, dopo la Cina. Ora siamo terzi, dopo la nazione asiatica e gli Stati Uniti. Siamo primi in Europa, ma dei due milioni di tonnellate di pere prodotte annualmente, l’80% è basata solo su tre varietà: Williams, Abate e Conference. Kaiser in pochissime quantità. E dire che, fino a quaranta o cinquant’anni fa, c’erano centinaia di tipologie. Prima, addirittura, migliaia.

Come si svolge la sua ricerca? Vado in giro per poderi abbandonati, tenute, conventi, abbazie, monasteri. Tra documenti antichi e, quando possibile, ricordi contadini, cerco di risalire alla loro datazione e agli usi che all’epoca se ne facevano. Negli ultimi anni mi sono riferita anche all’arte, in particolare alla pittura rinascimentale. Se Pinturicchio o Piero della Francesca dipingevano un frutto, voleva dire che esso aveva un significato simbolico, e, soprattutto, che esisteva.

Lavora anche con l’estero? Da diversi anni in Russia. Ho cominciato con una consulenza per il Museum Factory Pastila a Kolomna, dedicato alla storia e alla tradizione di dolci tipici locali, a base di mele. Dallo scorso anno sto collaborando pure con il frutteto di Lev Tolstoj, Jàsnaja Poljàna, la tenuta dove lo scrittore visse, operò e fu sepolto.

Perle pregiate e pepite introvabili

La scoperta di cui va più fiera? «La pera Fiorentina», risponde Isabella Dalla Ragione. «L’avevo trovata citata in molti documenti tra il 1.400 e il 1.500 e pensavo che fosse scomparsa. Invece, nelle montagne di Pietralunga, intorno a Perugia, ho rinvenuto la pianta madre. Veniva coltivata nelle zone di alta collina di quelle parti, anche se deve il suo nome alla probabile provenienza toscana. È la varietà invernale, da cottura, adottata da Bill Pullman». A Gèrard Depardieu, invece, è stata affidata la pera Briaca. Altri pezzi curiosi del frutteto-collezione di Archeologia Arborea: la Bella d’Arezzo, una ciliegia rosso intenso che si conservava per aromatizzare gli arrosti, e la susina Scosciamonaca, dalla forma allungata e con sfumature viola, molto profumata. Quelli a cui, invece, non si è ancora riusciti a risalire? «La pera Carovella e il fico Rondinino di San Sepolcro», spiega Dalla Ragione.

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