E se fosse la Cina a salvare il made in Italy?

Nell’analisi del “Financial Times” il gigante asiatico pronto a risollevare le sorti dell’industria (e dei posti di lavoro) del nostro Paese

Non solo sulle spalle di imprenditori e istituzioni nostrane, il salvataggio del made in Italy potrebbe passare dalla Cina. Non è una provocazione, ma l’ipotesi lanciata dal reportage firmato da Rachel Sanderson, Kathrin Hille e Vanessa Friedman per il Financial Times. L’analisi parte dal debutto, avvenuto in pompa magna, a Pechino, del marchio di abbigliamento maschile Sheji/Sorgere. Un brand dalla proprietà cinese (appartiene infatti alla controllata statale China Garments, ma fabbricato in Italia nei laboratori (e grazie al know how) della Raffaele Caruso spa, storica azienda del made in Italy di recente passata sotto il controllo di Umberto Angeloni. Una start up che, se al momento non pare poter competere con I celebri marchi del lusso italiano, è un potente indicatore del profondo cambiamento che la seconda più grande economia del mondo, quella cinese, può apportare all’industria europea, ed italiana in particolare. La forza del mercato dei beni di lusso in Cina – con vendite stimate in 40 miliardi di euro nel 2011 – è tale da dettare le scelte strategiche delle aziende di tutto il mondo, sempre più attente a quello che succede in Oriente. I gusti dei consumatori cinesi stanno cambiando, anche in Cina si inizia a percepire l’Europa, e l’Italia in particolare, come la culla del lusso e il know della produzione italiana come il plus che possa giustificare un premium price. Questa nuova sensibilità, unita alla crisi del debito sovrano del nostro Paese, non può che spingere le aziende cinesi ad investire in Italia, non solo comprando prodotti del made in Italy, ma anche investendo direttamente nel nostro Paese e creando così, e non è un paradosso, posti di lavoro in Italia.

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