Enogastronomia di alta gamma, un business che va di moda

Mentre i ristoranti stellati non riescono sempre a far quadrare i conti, cresce il numero di marchi del fashion che investono in locali gourmet: non è solo questione di immagine, ma una strategia di “lifestyle brand” per entrare in ogni aspetto della vita dei consumatori altospendenti

L’ultimo ad arrivare, in ordine di tempo, è stato il re del cashmere Doriani che, nell’estate del 2015, senza eccessivo clamore ha aperto il suo ristorante-caffé al numero 19 di via Montenapoleone, nel pieno del Quadrilatero della Moda di Milano. «Il food attrae il pubblico e porta un grande ritorno pubblicitario», ha detto alla stampa l’amministratore delegato dell’azienda, Gisberto Carlo Sassi, spiegando perché un’impresa come Doriani, tanto brava a fare giacche e maglioni pregiati, abbia deciso di investire nella ristorazione partendo letteralmente da zero. A ben guardare, non si tratta proprio di un’idea originalissima perché in tutta Milano, ma anche a Roma e Firenze, diverse griffe della moda hanno deciso di puntare sul business dell’enogastronomia di altissimo livello, non soltanto sui ristoranti, ma anche su pasticcerie e botteghe del gusto esclusive.

TUTTA QUESTIONE DI BRAND

CONTI CHE NON (SEMPRE) TORNANO

I MIGLIORI CHEF ITALIANI

TRA PRADA E I FRANCESILo sa bene chi ha seguito le vicende di Cova e Marchesi, fra gli artigiani dei dolciumi più apprezzati di Milano, finiti da tempo nell’orbita di altrettanti gruppi del fashion. Il primo è la multinazionale del lusso di origine francese Lvmh che, quasi tre anni fa, ha sborsato diversi milioni di euro per accaparrarsi la maggioranza assoluta della pasticceria Cova di via Montenapoleone, battendo sul filo di lana la concorrenza del gruppo Prada. Quest’ultimo, non contento dello smacco subìto, ha risposto nel 2015 con l’acquisizione della pasticceria Marchesi di via S. Maria alla Porta (a pochi passi da Corso Magenta, decidendo poi di allargarne le attività con un nuovo negozio in via Montenapoleone, proprio di fronte al concorrente Cova. Anche uscendo dal settore dolciario, però, la musica non cambia. Circa quattro anni fa, per esempio, il noto imprenditore tessile Marzotto ha deciso di comprare Peck, il negozio di vini e alta gastronomia milanese che possiede anche un bar e un ristorante, e ha aperto con il suo marchio diversi corner di vendita in Asia, dal Giappone alla Corea del Sud passando per Singapore. Per non parlare poi dei bar e dei ristoranti stellati, dove il connubio tra diversi stilisti e gli chef di grido è ormai una realtà consolidata da anni. Giorgio Armani, Dolce&Gabbana, Gucci, Ferragamo o Trussardi: ecco alcuni nomi della moda italiana che da tempo, spesso da decenni, hanno deciso di investire con alterne fortune nella ristorazione di alta qualità, dando la caccia a qualche cuoco promettente o già insignito di un riconoscimento sulle guide più prestigiose. A questa lunga lista di griffe si sta per aggiungere anche la maison romana Fendi che punta sulla cucina giapponese, in partnership con uno chef-imprenditore di fama mondiale come Rainer Becker.

MILIONI E MILIARDIMa perché – viene da chiedersi – le case di moda sono tanto interessate a comprarsi ristoranti stellati o pasticcerie? Non certo per il conto economico e i ricavi di queste strutture, che ammontano a qualche milione di euro all’anno a fronte di profitti netti di alcune centinaia di migliaia di euro. Si tratta indubbiamente di cifre di tutto rispetto, ma che nulla hanno a che vedere con i fatturati miliardari dei grandi nomi del lusso internazionale. Quando è stata acquisita, la pasticceria Cova aveva un giro d’affari di poco superiore a sette milioni di euro annui, mentre il fatturato del concorrente Marchesi è nell’ordine di circa 2,5 milioni di euro. Anche per quel che riguarda la gestione di un ristorante stellato, i numeri sono più o meno gli stessi delle pasticcerie più rinomate. Basti pensare che uno chef del calibro di Carlo Cracco, secondo un reportage realizzato a suo tempo da il Fatto Quotidiano, con la sua società Cracco Investimenti movimentava nel 2013 un giro d’affari di oltre 3,9 milioni di euro, derivanti però non soltanto dalle attività di pura ristorazione. Si tratta di una montagna di soldi per un comune mortale, è vero, ma diventano quasi una goccia nel mare se messi a confronto con i 3,5 miliardi di euro di ricavi realizzati da un gruppo come Prada o con i quasi 17 miliardi fatturati annualmente da Lvmh. E allora, se non è una questione di conto economico, perché le griffe puntano sull’alta ristorazione?

LUXURY EXPERIENCELa risposta la dà Stefania Lazzaroni, direttore generale della Fondazione Altagamma, che riunisce decine di aziende rappresentative dell’eccellenza italiana nel mondo: «Il connubio tra moda e alta cucina è il segno di un’evoluzione in corso già da diversi anni», dice Lazzaroni, secondo la quale i “luxury brand” si stanno trasformando progressivamente in “lifestyle brand”. Detto in parole povere, ai grandi marchi del lusso non basta più fare solo vestiti e gioielli, ma vogliono o hanno bisogno di investire nel settore dell’arredo, negli hotel e, non da ultimo, anche nel comparto della ristorazione di alta gamma, cioè in tutto ciò che caratterizza uno stile di vita agiato e orientato alla qualità. Questo mutamento genetico delle maison di moda ha una ragion d’essere ben precisa: oggi, secondo l’ultimo rapporto realizzato da The Boston Consulting Group (Bcg), i consumatori di tutto il mondo spendono ben 522 miliardi di euro all’anno in quello che viene definito “lusso esperienziale”, cioè per soggiornare negli alberghi di prima categoria, per fare viaggi e, appunto, anche per mangiare nei locali di alto livello. La spesa nel lusso esperienziale supera abbondantemente quella destinata al cosiddetto lusso per la persona, cioè all’abbigliamento, alla cosmetica o ai gioielli, che attirano a livello globale circa 323 miliardi di euro di consumi. Per questo, le griffe della moda devono posizionare il proprio marchio sulla stessa lunghezza d’onda di una nuova generazione di consumatori, intenzionata a vivere il luxury e il fashion a 360 gradi, cioè pure al ristorante o negli alberghi, senza limitarsi a frequentare soltanto le boutique o gli showroom. Anche perché questo fenomeno sta crescendo maggiormente in certe fasce importantissime di consumatori. È il caso dei cosiddetti Millennials, cioè i nati tra gli anni ’80 e il Duemila, che intendono ormai il “lusso” più come uno stile di vita che non come un qualcosa legato necessariamente al possesso di un bene. Proprio per questa ragione, fashion e alta cucina vanno sempre più a braccetto.«Ho sempre pensato che la ristorazione fosse il simbolo dell’eccellenza italiana al pari della moda, dell’arte e della cultura», dice Santo Versace, noto imprenditore del fashion made in Italy, che a Milano è anche socio di un ristorante-caffè, seppur a titolo personale e con una quota minoritaria. Il locale si chiama Larte, si trova in via Manzoni e dal 2013 propone alla clientela eventi dedicati anche alla cultura, per celebrare il connubio tra enogastronomia, arte, moda e design.

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