E se l’Italia diventasse l’Eden del mondo?

Alla ricerca dell’unicità del nostro paese. Dieci proposte per far ripartire l’economia tricolore: puntare tutto sui beni culturali, attraverso riqualificazione, promozione e defiscalizzazione della vera unica risorsa della vera unica risorsa naturale della penisola, la bellezza

Quando la crisi, economica, sociale, politica, finanziaria, incalza, la nostra classe dirigente si nasconde, fugge, “evapora”. Inizia così la ricerca più o meno affannosa di qualcuno in soccorso del quale, se vincitore, correre, come avrebbe sottolineato il grande Flaiano. La storia ci insegna che talvolta il vincitore ha funzionato (De Gasperi e il 1948), talaltra i risultati sono stati devastanti (Mussolini e la crisi del 1922). Altre volte ancora (i pubblici ministeri nel 1992) non facendo i medici prescelti il mestiere che erano stati incongruamente chiamati a svolgere, al male (la Prima Repubblica) è seguito il peggio (la Seconda Repubblica). Oggi poi, che le stesse fondamenta del vivere comune sembrano flettere, la nostra classe dirigente appare in uno stato “gassoso” ed è capace di discettare unicamente sul ruolo degli economisti, meglio se bocconiani, o dei comici da cabaret che abbiano anche, nel loro curriculum, trascorsi cinematografici e televisivi.

La ricerca del pifferaio magico, capace di portarci miracolosamente fuori dalla palude in cui ci troviamo, è in questi mesi ancora più “ansiogena” del passato, così come è profondamente assente una riflessione sul Paese, sulle sue potenzialità e sugli ostacoli, insormontabili o meno, che devono essere superati per uscire da questa “crisi di sistema” che per essere vinta richiede fantasia, coraggio, competenze e determinazione. Dimentichiamo allora per un attimo l’identikit del “salvatore della patria” e cerchiamo invece di individuare un punto fermo da cui fare ripartire l’Italia. Il mondo globalizzato chiede ai Paesi che vogliono avere un ruolo socialmente, politicamente ed economicamente di rilievo il possesso di una unicità che deve essere conservata e coltivata.

Per alcuni Paesi questa unicità è, ad esempio, un costo del lavoro estremamente basso e competitivo. Per altri il possedere materie prime in quantità devastante, per altri ancora essere detentori della tecnologia più avanzata, per altri ancora avere istituzioni, infrastrutture, economia e finanza pubblica perfettamente funzionanti, per altri un corretto mix di tutti questi elementi con in più una significativa e forte presenza in alcuni dei grandi segmenti industriali (edile, metalmeccanico, informatico/tecnologico, chimico/farmaceutico).

E l’Italia? Brilla per non avere alcuna di queste unicità. Ha perso da anni la scommessa della industria automobilistica, della chimica, per non parlare della informatica e delle tecnologie avanzate. E questi treni non saranno mai più raggiungibili. Quale che sia l’entità dell’ennesimo piano di aiuti statali alla Fiat… E per carità di patria sorvoliamo sul funzionamento della burocrazia, della giustizia, delle grandi infrastrutture e delle istituzioni in genere. Ha ancora segmenti industriali in cui è leader (ad esempio le macchine industriali o la moda), ma non sono sufficienti a restituire un primato economico o una forza finanziaria. Possiede però un qualcosa, unico al mondo, su cui puntare tutte le carte che abbiamo in termini di investimento, infrastrutture, occupazione e che può farci tornare a essere un Paese economicamente sano e, forse, felice. Le bellezze naturali, artistiche e il cibo devono fare diventare il nostro Paese “l’Eden” del mondo. È il momento, cioè, di chiamare pubblico e privati a concentrare gli investimenti in questi settori, pensare a un grande piano di riforme che abbia al centro i nostri beni culturali e ambientali.

Penso, anche provocatoriamente, a dieci proposte per spingere questo tipo di progresso: lo Stato potrebbe allocare il 10% degli investimenti nei beni culturali, nel turismo e nelle iniziative collegate; potrebbe essere previsto il varo di un grande piano pubblico/privati al fine di individuare i nuovi investimenti, le nuove priorità, le infrastrutture necessarie; si dovrebbe poi ripensare la macchina burocratica dello Stato e degli Enti locali sulla base della centralità di beni culturali e ambientali. Questo vuol dire mobilità dei dipendenti da ministeri o assessorati obsoleti verso nuove realtà amministrative funzionali a questo sviluppo anche, se non principalmente, sul territorio; si potrebbe cedere in concessione ai privati siti archeologici, musei, palazzi ecc. garantendo loro la commercializzazione del brand nelle sue varie declinazioni; converrebbe pensare a forme di detassazione verso gli investimenti dei privati nel restauro e nella conservazione dei beni (sia pubblici che privati), nonché nella creazione, riqualificazione e gestione di siti turistici capaci di rispettare la natura e il territorio; si dovrebbe provvedere alla riconversione di centinaia e centinaia di luoghi abbandonati (dalle caserme a luoghi di archeologia industriale) per creare nuovi musei, nuovi siti culturali (modello la città del cinema o del teatro) e nuovi teatri aperti alle nuove espressioni; sarebbe meglio rendere da subito i nostri beni fonte di reddito. Per esempio, prevedendo un congruo biglietto di ingresso per ammirare patrimoni urbanistici del calibro di Venezia, Firenze o Siena, per non parlare dei principali siti archeologici come i fori romani; bisognerebbe cominciare a puntare a un turismo targettizzato, creando località e zone da vivere (e vendere) come fasce protette, giocando sulla tipologia degli alberghi e delle località (sul modello di quanto fatto in Francia con i “relais chateau”), oppure federando luoghi turistici attualmente separati nell’organizzazione, ma non nella fruizione (come le ville palladiane in Veneto, i paesi del Salento ecc. per i quali si può pensare a quanto fatto in Francia con i castelli della Loira o in Spagna con il cammino di Santiago de Compostela); si dovrebbero estendere i parchi naturali, sia montani che marini, con forme di turismo non riconducibili alla cementificazione; infine sarebbe opportuno defiscalizzare tutto ciò che, dalla moda al cinema, è ambasciatore del brand “Italia” nel mondo. DIECI PROPOSTE PER L’ITALIA

Una sfida complessa e articolata, che coinvolge tutti: istituzioni, partiti, sindacati, finanza, banche, industria, commercio, uomini di cultura, cittadini. Per taluni versi dirigistica, per altri liberale. Provocatoria e utopistica, ma anche realistica. E che esige in primis, e finalmente, l’appoggio e la forza della politica, quella vera con la P maiuscola capace di mediare, coordinare, confrontarsi, ma al momento giusto decidere nell’interesse di tutti, e non di pochi… “A valle di questo progetto”, si sarebbe detto nel ‘68, c’è un obiettivo preciso: far sì che i beni che ci hanno lasciato i nostri antenati e la benevolenza del Signore diventino uno strumento per vivere meglio noi, i nostri figli e i nostri nipoti. Trasformare cioè il passato in un eterno presente/futuro dove si incrociano le memorie, il ricordo, le innovazioni tecnologiche, i diversi modelli di fruizione, le visioni avvenieristiche, la forza dell’economia e il fascino della cultura.

UNA PROVOCAZIONE? NO, UN SOGNO

Seguendo questa linea, immaginiamo Pompei nel 2022: un sito restaurato e riportato a nuovo splendore. Intorno agli scavi archeologici, ma lontano da essi, perché a dividerli vi sono alberi e verde, una città per gli svaghi e il riposo con alberghi e ristoranti sul modello di quanto gli americani hanno fatto a Las Vegas, con la differenza che Vegas vende finte realtà mentre Pompei l’originale. L’hinterland napoletano senza disoccupazione e senza camorra, impegnato come è a lavorare per vendere il sole, la storia, le canzoni, la pizza, le tradizioni, la cultura: in una parola l’Italia. Se questo sogno si realizzasse, non varrebbe la pena raccogliere la provocazione sull’investire sulla nostra “unicità”?

© Riproduzione riservata