Chi paga la crisi?

A fare le spese del rallentamento del mercato sono coloro che hanno puntato tutto sugli aspetti economici dell’arte e sulla sua capacità di moltiplicare il proprio valore in brevi lassi di tempo

Qualcuno aveva persino ipotizzato che il mercato dell’arte non avrebbe risentito della recessione globale. Colpa del ritardo con cui il settore ha incassato il colpo: i primi segnali concreti di rallentamento si sono infatti sentiti alla fine dell’estate e in autunno. Nei mesi successivi la situazione è andata via via peggiorando. Le grandi kermesse di Londra (Frieze), Miami (Art Basel Miami), Madrid (Arco) e New York (Harmory) hanno confermato il trend negativo, allineandosi al passo incerto delle tornate d’asta inglesi e americane (novembre, febbraio e marzo), caratterizzate da cataloghi ridotti e caute stime. Tra gli operatori serpeggia il pessimismo. Di più: gli effetti collaterali si fanno sentire non solo tra i collezionisti ma sull’intera filiera dei beni culturali. Eppure c’è chi pensa che tutto il male non venga per nuocere. Tra equivoci e luoghi comuni la confusione regna sovrana. Proviamo a mettere un po’ d’ordine, partendo da una semplice domanda: mercato dell’arte e mercato finanziario vanno a braccetto? Ovvero è così scontato che l’uno segua l’andamento dell’altro? A giudicare dalle vicende recenti sembrerebbe proprio di sì. E questo perché i protagonisti della nuova età dell’oro del collezionismo sono per lo più gli stessi hedger responsabili del crack finanziario dei mutui americani che ha innescato la recessione. I nomi ritornano (Steve Cohen, Kenneth Griffin, Adam Sender, David Ganek, Eli Broad o Daniel Loeb), la matrice speculativa anche.

L’effetto positivoDal 1991 a giugno 2008 l’indice dei prezzi dell’arte ha registrato un incremento pari al 132% (fonte: Artprice), in larga parte imputabile al segmento dell’arte contemporanea. L’arretramento degli ultimi dieci mesi è stato netto (si calcola intorno a -40%) ma non tale da pregiudicare il giro d’affari. Insomma gli allarmismi sembrano ingiustificati al cospetto di un margine di sicurezza che pare ancora ampio. Certo, gli entusiasmi di qualche tempo fa si sono placati ma questo può persino rivelarsi salutare. Lo scrive l’opinionista del Times Waldemar Januszczak paragonando la crisi agli incendi periodici sudafricani, considerati vivificatrici perché in grado di sterminare le piante parassite e rinforzare il legno. E lo afferma anche il celebre critico newyorkese Jerry Saltz, affermando innanzitutto che in crisi è il mercato dell’arte e non l’arte come disciplina, che invece proprio dalle crisi ha sempre tratto energia e creatività, quindi invitando a non far paragoni con la crisi vera che colpisce l’economia reale. Gli fa eco infine il potente dealer Tony Shafrazi, che parla di nuove prospettive di sviluppo, aperte da uno scenario finalmente libero da speculazioni. Ma c’è dell’altro. Come la diffusa opinione che il mercato dell’arte sia unico e indivisibile. Mai è stato così, neppure in passato, quando al collezionismo dei principi si affiancava quello dei Papi e della chiesa, delle corporazioni e delle municipalità. E sebbene sia ormai invalsa l’equivalenza tra opera d’arte e prodotto commerciale, così non sarà mai fino in fondo. Perché il valore dell’arte trascende quello commerciale, anzi: sono esattamente quei valori trascendenti, quello culturale, identitario, generazionale e storico, che determinano un valore simbolico che, a sua volta, si traduce in valore commerciale. La maggior parte delle opere di arte antica, che oggi sono considerati capolavori e sono conservati nei musei, furono creati con altri intenti (devozionale, decorativo, simbolico). In questo consiste, come scriveva Cesare Brandi, «la vita dell’opera d’arte», che cambia nei secoli di valore e di significato, prescindendo dal suo creatore.Una crisi economica è un fatto contingente, episodico rispetto alla vita dell’opera d’arte. Che peraltro finisce per assumere un ruolo calmierante: penalizza un gruppo di potere, alcuni settori, ne valorizza e ne riscatta altri.In pochi sanno per esempio come il grande boom dell’arte contemporanea degli ultimi decenni ha innescato una recessione che dura da anni sull’economia legata al collezionismo dell’arte antica, dell’800 e di una parte delle avanguardie. Il brusco risveglio dal sogno di scovare i geni del presente e del futuro induce oggi a riscoprire i geni del nostro passato recente e remoto, le cui valutazioni spesso lasciavano il passo alle star odierne.

Ritorno al gusto nazionaleIntanto, mentre il grande mercato globale arranca rialzano la testa i mercati nazionali e locali. Nella prossima edizione della Biennale Arti Visive di Venezia, che aprirà a giugno, il Padiglione Italia sarà l’espressione tipica di un gusto nazionale che è pressoché ignorato a livello internazionale ma genera un giro d’affari complessivamente ben più ampio di quello transnazionale, élitario e ristretto.Alla fine dunque, a chi nuoce realmente la crisi? Nuoce a chi ha sottovalutato il valore culturale dell’arte e ha puntato tutto sul suo valore economico. In breve, a chi si è legato in modo esclusivo a un collezionismo deviato, che ha inteso speculare sulla capacità dell’arte di moltiplicare il proprio valore in brevi lassi di tempo (si pensi al +583% dell’arte cinese e al +957% dell’arte indiana dal 2004). Ma allora come si spiega che proprio i musei, luoghi deputati a conservare, tutelare e promuovere la cultura, sembrano pagare il prezzo più alto? Le ragioni sono molteplici ma essenzialmente possono essere riassunte nell’ottusa applicazione dei modelli gestionali aziendali e delle leggi del marketing al settore culturale, cosa che ha indotto a una pericolosa deriva verso la stretta dipendenza dell’andamento del mercato, un fenomeno ben descritto da Jean Clair nel suo recente contributo dal titolo La crisi dei musei (Skira Editore, 2008).A dimostrazione di ciò stanno le vicende recenti, che indicano nei musei americani, legati a doppio filo ai finanziamenti privati, quelli più a rischio. Il Metropolitan ha inaugurato un piano di emergenza per fronteggiare la contrazione dei finanziamenti pubblici e privati, il MoMa ha ridotto il bilancio del 10%, il Moca di Los Angeles si è salvato solo grazie al denaro del collezionista Eli Broad. Piccoli musei come quello di Las Vegas hanno chiuso, altri, come quello di Atlanta, Filadelfia e Detroit, hanno operato tagli drastici che, sul personale, sono arrivati anche al 20%. Ma è tutto il comparto culturale a soffrire. In campo teatrale, Broadway ha annullato quattro spettacoli sotto Natale e l’industria dello spettacolo sta registrando cali di vendite e ridimensionamento dei finanziamenti.In Europa le cose sembrano andar meglio soprattutto nei Paesi, come Francia e Italia, nei quali il controllo dei musei è affidato allo Stato. In Germania la situazione è paradossale: negli ultimi anni sono nati innumerevoli musei grazie all’iniziativa privata, dal Weishaupt di Ulm al Frieder Burda Museum di Baden-Baden, dal museo di fotografia di Julia Stoschek a Dusseldorf al Bunker berlinese del guru della pubblicità Christian Boros, dal parco della scultura voluto da Tony Cragg a Wuppertal fino ai 6.225 metri di spazio espositivo del Phoenix Kulturstiftung di Amburgo inaugurato da Harald Falckenberg. Ma il fenomeno dei “musei fai-da-te” crea grattacapi alle istituzioni pubbliche, che vedono i loro ex finanziatori diventare concorrenti.Quanto all’Inghilterra, è in atto un ripensamento delle politiche culturali e gestionali dei musei: lo stop alle strategie manageriali mutuate dal mondo dell’imprenditoria e la messa in discussione del modello dei Grandi Eventi (stigmatizzato già nove mesi fa dalla sezione italiana dell’Icom, International Council of Museums) ne sono due segnali evidenti. Alla National Gallery il direttore Nicholas Penny ha fatto un esperimento curioso, allestendo una mostra con due sole opere di Tiziano. Il risultato è stato sbalorditivo: nessun calo sensibile di visitatori e, soprattutto, tempi analoghi di visitazione. Come dire: il turista mordi e fuggi, per il quale una mostra è una gara di slalom a chi vede più quadri in minor tempo, lo abbiamo creato noi. A noi tocca rieducarlo ai tempi dell’arte. Altrove si sperimentano altre formule come il prestito reciproco o il semplice allestimento variabile, per valorizzare la collezione e i depositi. Collezionisti che scommettono sulla cultura, musei che ripensano la loro missione: la crisi penalizza soprattutto chi la subisce passivamente, chi non comprende che è forse questo il momento di tornare a ripensare modelli, progetti, strategie per la cultura del nuovo millennio. Sopravvivere oggi equivale a porre le fondamenta per la leadership del futuro. Così accadde ad esempio per alcuni dei maggiori musei americani, nati proprio negli anni che seguirono il crack del ’29 e per opera di privati: nel ’37 il Guggenheim, nel ’31 il Whitney e proprio nel ’29, nove giorni appena dal crollo di Wall Street, il MoMa.

Pillole

+132% la crescita dell’indice dei prezzi dal 1991 a giugno

+583% la crescita dell’arte cinese dal 2004

-40% il calo registrato negli ultimi dieci mesi

+957% la crescita dell’arte indiana dal 2004

Fonte: Artprice

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