Gli italiani non credono più nel posto fisso. D’altronde, se anche il record di occupazione femminile è legato soprattutto ai contratti a termine, c’è poco da sperare nel futuro di un contratto stabile. Sembrano averci rinunciato tre italiani su quattro, il 74% per la precisione, che hanno confessato la loro sfiducia nel Randstad Workmonitor, indagine trimestrale condotta dal colosso delle risorse umane in 33 Paesi su un campione di 400 lavoratori.
«Tre lavoratori su quattro (il 74%), si sono ormai rassegnati all’idea che una carriera lineare portata avanti per tutta la vita lavorativa all’interno della stessa azienda o istituzione non esista più», si legge nel comunicato. «La provvisorietà del posto di lavoro è avvertita maggiormente dalle donne (77% contro il 70% degli uomini) e dai lavoratori più maturi (76% dei dipendenti nella fascia 45-67 anni, contro il 72% degli occupati fra i 18 e i 44 anni) e spinge gli italiani a investire nella formazione continua per restare competitivi nel mercato del lavoro (91%), ad accettare una riduzione di stipendio pur di mantenere il posto (44%), o a prendere in considerazione l’idea di emigrare (59%) o di trasferirsi temporaneamente all’estero (60%) per trovare un impiego non disponibile in Italia».
«Diverse sono le strategie messe in atto dai dipendenti per rispondere alle sfide della flessibilità: sono fra i primi nel cercare una risposta di tipo propositivo», dice Marco Ceresa, a.d. di Randstad Italia. «Dalla ricerca emerge, infatti, che ci sono lavoratori più combattivi che sentono di aver bisogno di una formazione continua e cercano di migliorare costantemente la propria competitività (il 91%, contro l’86% della media globale) e altri (il 59%) che sono disposti ad uscire dalla loro zona di comfort ed emigrare per trovare un lavoro non disponibile in Italia. Un segnale culturale e sociale sicuramente importante che vede i nostri lavoratori adottare un approccio più reattivo che contrasta l’accettazione dell’instabilità del mercato, comunque, rilevata da una parte del campione».
Ma c’è anche chi va sulla difensiva: l’85% dei lavoratori accetterebbe un contratto a termine pur di non restare disoccupato, contro una media globale dell’80%, e ben il 44% sarebbe pronto a ridursi lo stipendio o ad accettare un demansionamento per non perdere l’impiego, contro una media globale pari al 42%.
Maturità, dunque, o solo rassegnazione? Di sicuro l’Italia si allinea ormai alla media mondiale (73%). Soffre soprattutto l’Europa meridionale: i più pessimisti sono i dipendenti di Portogallo (86%), Grecia (82%), Francia (80%) e Spagna (77%). La fiducia cresce andando verso Nord: Germania (71%), Svezia (67%), Danimarca (66%), Norvegia (62%) e Lussemburgo (53%) sono al di sotto delle media.
© Riproduzione riservata