«Qui manca la cultura dell’outplacement»

Aziende e sindacati ancora troppo spesso non considerano la ricollocazione come leva gestionale, nonostante sia uno strumento a cui si fa ampiamente ricorso all’estero e che produce buoni risultati anche in Italia. Il punto di vista di Cetti Galante, direttore generale di Intoo

Mentre i tecnici del governo Monti sono già all’opera per arginare gli effetti della crisi internazionale sull’economia italiana, le discussioni sulle trasformazioni che deve affrontare il mondo del lavoro per andare incontro alla flessibilità richiesta dai mercati non si placano. Anche se la possibilità di estendere la licenziabilità nelle piccole imprese da 15 a 30 dipendenti, ventilata da Giuseppe Parenti, in alcuni casi è trattata alla stregua di una boutade: impossibile toccare diritti acquisiti, poco importa se sono stati acquisiti un’era geologica fa, quando il mondo occidentale – l’economia occidentale – trottava al passo di una crescita apparentemente senza limiti. Il guaio è che si sottoutilizzano anche strumenti che già sono disponibili, e che in ogni sede o quasi hanno dimostrato la loro efficacia nel garantire più flessibilità senza rinunciare alla tutela del presente e del futuro dei lavoratori. Uno di questi è l’outplacement, o ricollocazione professionale: nel momento in cui un’azienda si trova a dover gestire un esubero, anziché ricorrere alla mobilità e alla cassa integrazione per poi licenziare le risorse in eccedenza accompagnandole con una buona uscita, potrebbe invece avviare gli ex dipendenti a un processo di formazione e di reinserimento in altri contesti produttivi. «In Paesi come la Francia e il Belgio l’outplacement è un’opzione prevista dalla legge, mentre in Italia è uno strumento usato ancora troppo poco», spiega Cetti Galante, direttore generale di Intoo, la società che fa parte di Gi Group, prima multinazionale italiana del lavoro, e che per l’appunto si occupa di ricollocazione professionale. Intoo altro non è che il nuovo nome di Dbm, marchio in franchising che in 20 anni di attività sotto l’egida di Gi Group è riuscito a conquistare la leadership in Italia tra le agenzie di outplacement raggiungendo il 40% di quota di mercato. «La sostanza è rimasta la stessa, così come le persone: non abbiamo rinunciato nemmeno a una risorsa», dice Galante. «È stato solo creato un nuovo brand, Intoo, che si pone come il capofila di un network internazionale a matrice europea…»

Il processo di rebranding non ha comportato un riposizionamento della società?

Se come Dbm eravamo parte di un network, con Intoo siamo invece impegnati come capofila nella costruzione di un network globale dell’outplacement. È un riposizionamento, verso l’alto, più ampio. Dal punto di vista della sostanza e operativo i nostri valori, la qualità dei servizi e le professionalità rimangono inalterati. D’altro canto la creazione di un nuovo network globale dell’outplacement era in realtà qualcosa a cui in Gi Group si stava già pensando da tempo, essendo il Gruppo presente in oltre 20 Paesi. Anzi, confesso che mi piace l’idea di portare negli altri Paesi l’impostazione che c’è in Italia. Già in Dbm eravamo il fiore all’occhiello del network.

Eppure in Italia l’outplacement è uno stru-mento ancora scarsamente utilizzato…

Il problema italiano è che non ci si crede abbastanza, non essendo obbligatorio. Come ho detto, in altri Paesi il ricorso all’outplacement in caso di licenziamenti è obbligatorio ed è parte integrante delle politiche attive di welfare, di quella cultura volta a creare un sistema più flessibile senza togliere tutela alle persone. Oggi in Italia abbiamo invece un sistema che si limita ad assistere senza però creare i presupposti per un discorso rivolto al futuro. È una cultura che va creata a livello di sistema, una cultura che non è consolidata in nessun settore. Se pensa che i candidati gestiti da tutte le società di outplacement, quindi non solo da noi, sono stati 7.500 nel 2008, 7.900 nel 2009 e 8.000 nel 2010 si renderà conto che è una percentuale microscopica rispetto ai disoccupati reali. Pure il trend non rispecchia la situazione dell’occupazione italiana. È uno strumento che ha ancora molta strada da fare. Anche se francamente trovo assurdo che nel nostro quotidiano si ricorra a consulenti in tante situazioni e non lo si faccia per una cosa delicata come il lavoro. Anche perché il mercato oggi è molto complesso. Il processo di outplacement aiuta la persona ad analizzarsi, a crescere e di conseguenza a vendersi meglio all’esterno. Soprattutto in un contesto professionale completamente diverso rispetto a qualche tempo fa, quando si entrava in un’azienda con l’idea di rimanerci per 35 anni con contratto a tempo indeterminato.

Ma ormai non è un gioco a somma zero nei processi di ricollocazione? La crisi colpisce diversi settori, la produzione va necessariamente ridimensionata…

Nei processi collettivi abbiamo un tasso di ricollocazione che oscilla tra il 60 e 80%. Chi lavora nell’industria ha il vantaggio di sviluppare una chiara specializzazione, rivendibile anche in settori diversi da quello in cui si è sempre lavorato. La richiesta di professionalità specializzate non viene mai meno. Per potenziarle noi in genere consigliamo corsi di formazione, dall’inglese all’informatica, fino alla patente per i muletti. Per l’outplacement collettivo utilizziamo un team specializzato: operiamo una mappatura del territorio, uno screening capillare, contattiamo le aziende una per una. Lei lo sa che secondo Unioncamere l’80% delle posizioni aperte sono nascoste? Non escono su nessuna inserzione, e vengono riempite col puro passaparola. Solo la capillarità dell’azione aiuta a scovare le occasioni nascoste. Quella e i giusti rapporti con gli headhunters e le agenzie per il lavoro, naturalmente.

Come funziona dal punto di vista operativo il processo di outplacement?

Supportiamo tutte le figure professionali, dall’operaio al megamanager, con programmi che possono essere di tipo individuale o collettivo in base al livello di inquadramento delle persone e alla loro numerosità. Il percorso di outplacement inizia con il bilancio delle competenze, passando attraverso ruoli ricoperti e risultati raggiunti, per poi, in base anche e soprattutto alle esigenze personali (disponibilità o meno a un trasferimento, livello retributivo richiesto, distanza dalla propria abitazione…), arrivare alla fase di proposizione al mercato. Nel caso di un programma collettivo, per esempio, per la fase di reperimento delle posizioni si traccia un ideale cerchio con il compasso sul territorio, delineando l’area di interesse sulla quale procedere con un’assidua attività di contatto diretto e telemarketing. Ovviamente il livello di complessità delle diverse fasi, comprese quelle in cui si prepara la persona a sostenere i colloqui o la si supporta nella trattativa finale per la nuova posizione, varia in base al profilo professionale della persona. Tuttavia, quando si tratta di outplacement la gente non deve aspettare a braccia conserte, noi non siamo headhunter o un’agenzia per il lavoro: deve mettersi in gioco e rendersi attore del processo.

Che professionalità intervengono nel processo?

Il team di Intoo lavora in modo effettivamente personalizzato, ed è qualcosa di esclusivo nel nostro settore. Siamo in 120, ed è un numero altissimo per un’agenzia di outplacement. Operiamo per specializzazione e industry: è sempre un manager che proviene dallo stesso settore del candidato (banche, farmaceutico, fashion, automotive) o dalla stessa funzione aziendale (Hr, It, Finance) a fare da tutor lungo il percorso. In questo modo il consulente parla lo stesso linguaggio del candidato, ha contatti con un network di aziende utili per la ricollocazione, e soprattutto ha piena comprensione dei ruoli e delle skills che richiedono le nuove posizioni. Noi ci crediamo: solo una persona che ha lavorato nel settore può fare un lavoro così accurato. La caccia delle posizioni o lo sviluppo della carriera imprenditoriale avviene anche attraverso la specializzazione per ruolo. Offriamo poi la possibilità di effettuare colloqui di sostegno psicologico laddove le persone manifestino significativi livelli di sofferenza e disagio per la perdita del lavoro. Siamo inoltre strutturati in modo da fornire consulenza fiscale e previdenziale per le persone che lo necessitano. Tutto ciò sempre avvalendosi di consulenti specializzati in materia.

Che tipo di aziende sfruttano questi servizi?

Solo quelle grandi, soprattutto le multinazionali direi, o le grandi aziende italiane.

Anche nell’epoca dell’etica e della sostenibilità come parole-chiave del marketing?

Molto spesso quando si deve licenziare si dà un pacchetto d’uscita e quello viene identificato con la responsabilità etica. È che il privato si limita a replicare il modello pubblico. Ma sbaglia, oltre all’assistenza alla persona serve anche il rilancio. Alla fine del processo di outplacement spesso vengono a chiederci quanti contatti sono creati da noi e quanti dal candidato, per misurare l’efficacia del servizio. Però non è quello il punto. Il punto è come si usano, quei contatti. E se il candidato è stato in grado di sfruttarli è grazie al processo di crescita avviato insieme al consulente. Basti pensare che per i dirigenti, il 40% dei casi di ricollocazione deriva dal proprio network personale…

Perché le aziende, e soprattutto i sindacati, fanno tanta fatica ad accettare questo strumento?

In realtà alcuni sindacati lo stanno sposando, anche se non è un fenomeno generalizzato. Io capisco che viene identificato come l’idea di accettare il licenziamento. Ma vorrei si assumesse una posizione più pragmatica. È comunque un problema di cultura dell’intero sistema lavoro. L’Italia deve sviluppare un sistema più flessibile, ma più tutelato, e più rivolto al futuro. Servono sinergie tra il pubblico e il privato, un mix tra politiche attive e passive. Noi lavoriamo per coinvolgere sindacati, associazioni, aziende, enti territoriali, insomma tutti gli stakeholder. È un lavoro che va fatto in maniera instancabile e continua. Quella che cerchiamo è una leadership di cultura, non solo di fatturato. Siamo riusciti per esempio ad attivare il sistema delle doti col settore pubblico, avviando processi finanziati da Regioni come la Lombardia e il Piemonte su progetti con un premio alle agenzie che viene erogato solo all’avvenuta ricollocazione. In questo modo siamo tutti in gioco per il risultato.

Durante l’intervista la parola network è stata ricorrente. Ma che mi dice dei social network e del Web? Che ruolo avranno per il futuro dell’outplacement in Italia?

Facebook non è ancora tra gli strumenti che abbiamo adottato, ma lo useremo a partire dall’anno prossimo. Intendiamo movimentare le discussione con gruppi chiusi di lavoro per settore, secondo la nostra filosofia, e creare dei luoghi di incontro che aumentino la cultura con proposte concrete per industry. Sui professional network come Linkedin, Viadeo, Xing, invece, si tratta di usare un potentissimo network già esistente. Ma dobbiamo farlo in maniera mirata.

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