Lavoro: le incognite che in Italia nessuno (ancora) prova a risolvere

Tra quello che non c’è e quello che nessuno vuole, quello che viene pagato poco e quello sommerso, per non parlare di quello che nessuno cerca. Facciamo il punto della situazione

Se bastassero i miracoli, forse sarebbe più facile trovare lavoro. Che poi il vero problema del nostro mercato non è solo trovare un lavoro, ma farselo pagare come si dovrebbe. A grandi linee potremmo dire che è saltato da tempo il patto di fedeltà tra domanda e offerta, è saltato il buon senso, forse semplicemente è saltato l’interesse a dirci che Italia vogliamo essere da qui ai prossimi 20 o 30 anni che solitamente è il margine minimo di vantaggio sul futuro.

Uno dei parametri più evidenti che confermano la disabitudine italiana a costruirsi un domani è la precarizzazione del lavoro e la scarsa attitudine a stabilizzare i rapporti: quando, in uscita dalla pandemia, sentiamo dire trionfalmente che la disoccupazione è scesa, sarebbe utile non fidarsi a prima vista del dato in quanto tale, perché ogni numero va inquadrato in un contesto più organico. Soprattutto, la domanda da porsi sarebbe: con quali tipologie di contratto è aumentato il numero degli occupati? Stabilizzare dovrebbe essere la priorità delle imprese per quanto su di loro pesi ancora troppo il costo del lavoro; al tempo stesso questo non può giustificare lo scaricabarile delle disgrazie dall’alto al basso verso la debacle collettiva dei più deboli.

Precariato: lo spettro che immobilizza i giovani e l’Italia

L’Inps pubblica periodicamente il suo Osservatorio sul precariato: i dati del primo trimestre 2022 parlano chiaro sulla dinamica dei flussi con oltre un milione e 800 mila assunzioni, il 43% in più rispetto allo stesso periodo del 2021. Sono dati riferiti al lavoro privato rispetto alla maggior parte delle tipologie contrattuali: assunzioni stagionali +113%, intermittenti +85%, contratti a tempo indeterminato +44% e in apprendistato +43%, contratti a tempo determinato +35% e di somministrazione +29%. Altro dato da tenere a bada è quello del lavoro occasionale, anche esso col segno più davanti: un 25% in più rispetto allo stesso periodo 2021. Fin qui tutto bene, ma chiunque può capire che simili dati, senz’altro incoraggianti, di fatto sono i figli diretti del post pandemia e della spinta alla ripresa; andrebbe anche gridato che le politiche elastiche applicate dal Governo sull’applicazione dei contratti a tempo determinato, liberando gli argini dell’obbligo della causale, ha portato quel tipo di contratti di lavoro oltre il 70% dell’utilizzo, finendo per “drogare” lo stato di salute.

Questo articolo è tratto da Business People di settembre 2022. Non perdere gli altri contenuti: scarica la rivista da App Store, Google Play o App Gallery (Huawei)

Il guaio è che la politica e i media italiani si fermano al numero e si disinteressano alla visione d’insieme, che invece marca fortemente le dinamiche del lavoro se lo si guarda con la voglia di capirlo e migliorarlo: ogni quadro merita uno sguardo di premura da lontano e uno sguardo di conferma o di smentita da vicino. Occasionale, stagionale e determinato sono gli aggettivi a cui ci ha impermeabilizzati il mondo del lavoro che sta mostrando il suo lato peggiore soprattutto agli estremi della catena del valore, cioè i giovani in cerca di un primo e serio lavoro e gli over 50 in uscita forzata dal mercato senza grandi possibilità di rientro. La frattura è diventata voragine, in Italia, tra chi ha un contratto a tempo indeterminato e tutto sommato gode di forti tutele e chi galleggia su contratti a termine, salari da fame, tutele sociali sotto il minimo livello, spesso algoritmi al posto di un datore di lavoro se parliamo di tutto il mondo del giga-capitalismo che sta trasformando pezzi di vita e di società.

Volendo affondare con ancor maggiore coraggio dentro i numeri dei contratti a tempo determinato per vedere quanto incidono sulle differenti fasce d’età, una buona fonte resta Eurostat, l’Ufficio statistico dell’Unione Europea. L’applicazione massima si ha nella fascia tra i 15 e i 39 anni, con un 53,8% di assunti con quel contatto; scorporando ancora meglio il dato, il 17,3% di quei giovani italiani ha un contratto a tempo determinato di durata inferiore ai tre mesi, il 26,3% inferiore ai sei. Prendendo come parametro la Germania, nostro concorrente se immaginiamo due Paesi Ue a forte vocazione industriale, nello stesso periodo quei valori crollano per loro rispettivamente al 2,7% e al 9,8%. Seguono ex aequo, intorno al 51%, i giovani tra i 15 e i 24 e tra i 25 e i 34 anni. Cala infine al 25% il numero di contratti a tempo determinato per i lavoratori tra 35 e 44 anni e precipita al 12% tra i 50 e i 64. Meriterebbe a parte il discorso “tirocinio”, che tutto è meno che un rapporto di lavoro ma di cui da anni si registra un utilizzo poco serio, eccessivo, scorretto, a mistificare il più regolare e strutturato “apprendistato”. A ogni modo l’Italia è ultima in Europa per occupazione giovanile e tristemente prima per NEET, cioè giovani tra i 20 e i 34 anni che non studiano, non lavorano, non sono inseriti in alcun percorso di formazione o di ricerca.

È invece l’Inps a fotografare la consistenza dei lavoratori impiegati con quelli che in gergo chiamiamo “lavori occasionali”, ma che i tecnici inquadrano come CPO (Contratti di Prestazione Occasionale). Il 2022 è iniziato con oltre 13 mila unità, segnando un +25% rispetto a marzo del 2021). Importo medio mensile lordo? 241 euro, che come ogni dato medio nasconde gli estremi nel bene e nel male e, soprattutto, non rende giustizia alle differenze (genere, età, settore, geografia) ma tant’è.

Italia sovra-istruita

Anche qui la pandemia ci ha messo del suo: se sei donna, istruita e pure giovane, il danno sul lavoro è serio. Partiamo però dal paradosso: a confronto con gli altri Paesi Ocse, l’Italia ha un livello di istruzione sopra la media, ma anche un mismatch che cresce con for­za mentre cresce il mercato; se parliamo di imprese, i settori più in crisi di forza lavoro sono quelli dei sistemi informativi (mismatch so­pra il 55%) e quello della ricerca-progettazione e sviluppo (mismatch al 48%). La sovra-istruzione altro non è che un livello di formazione e di conoscenza superiore a quello richiesto dalla mansione o dal ruolo e l’Italia ha il suo peccato originale tra i laureati, dove il numero di la­voratori appunto al di sopra del necessario sfiora quasi il 40%: le im­prese italiane medio-grandi sono il recinto dentro cui il fenomeno dà il meglio del suo paradosso.

Perché è utile offrire questo spaccato? Perché ritaglia alla perfezione un ulteriore effetto collaterale del nostro mercato del lavoro alla deri­va: alla precarietà si somma la frustrazione. Davanti alla stagnazione dell’ingresso sul mercato e alle troppe variabili di instabilità, il biso­gno di aggrapparsi a un lavoro che dia continuità fa scattare l’altret­tanto bisogno di accontentarsi di un lavoro seppur al di sotto delle proprie aspettative, qualità, competenze, prospettive di crescita.

E poi: se da un lato le imprese medio-grandi concentrano il maggior numero di sovra-istruiti, immaginando il futuro di quei sovra-istruiti i trend confermano che più sono giovani (e donne) più vanno incontro alla disoccupazione, più sono anziani più vanno incontro a un quasi sicuro cambio di lavoro, ma con tutte le incognite dell’età che si por­tano appresso.

Torniamo alla disoccupazione e alle sue tante facce che non vengo­no mai raccontate. Le donne meritano un capitolo a parte perché pur­troppo il mercato italiano le penalizza a ogni livello: di genere, ana­grafico, settoriale, geografico. Al salario ci pensiamo tra un po’. Il loro identikit professionale somma tutte le variabili sfavorevoli, toccando anche quote di contratti a tempo determinato più alte rispetto agli uo­mini anche dentro imprese medio-grandi.

Infine, l’inerzia mista a competenza. Se quello che proviamo a dire a numeri e dati già si avvicina allo stato di salute precario del nostro mercato del lavoro, farlo con parole decise permette di raccontare le cose per quello che sono e non per come vorremmo che fossero: la routine delle attività richieste ai laureati impoverisce prima loro stessi e poi il Paese intero e il fatto di essere sovra-istruiti aggrava il tutto.

Siamo diventati un’Italia che premia il lavoro meno qualificato e a basso valore aggiunto: certe imprese e la politica si riempiono la bocca con l’urgenza delle competenze ma poi le mettono da parte, le umiliano, le sfibrano, non le pagano. Essere un Paese produttivo, serio, stabile e competente richiede una volontà che stenta ancora a farsi notare.

Quella del reddito di cittadinanza è solo una scusa

Il 2022, dicevamo, è iniziato cavandosela bene a numeri, ma meno ad analisi. È vero che i dati Istat riferiti al primo trimestre mettono il segno più davanti a 120 mila persone che si sono occupate rispetto all’ultimo trimestre 2021, ma il mercato del lavoro va visto da ogni lato. Dal loro ufficio stampa commentano così la situazione: «Dopo due mesi di forte crescita, ad aprile 2022 il numero di occupati mostra una lieve flessione, restando comunque superiore ai 23 milioni. Nel confronto annuale con aprile 2021, la crescita del numero di occupati è pari a 670 mila unità: in oltre la metà dei casi si tratta di dipendenti a termine, la cui stima supera i 3 milioni 150 mila, il valore più alto dal 1977. Il tasso di occupazione rimane al 59,9%, il cui valore record è stato registrato a marzo 2022, e quello di disoccupazione si attesta all’8,4%; il tasso di inattività, che sale al 34,6%, resta invece sui livelli pre-pandemici». Erano 11 anni che la disoccupazione non scendeva sotto il 9% ma, bene ripeterlo ancora una volta, la complessità della questione ha bisogno di più voci.

La scusa del Reddito di cittadinanza fa comodo alla categoria di imprenditori incapaci di cercare il personale seguendo le giuste vie di selezione e, ancor più spesso, incapaci di pagarli dal giusto in su. I settori più vicini al turismo denunciano la carenza più grave di personale, ma basta indagare il fenomeno per capire che il lavoro è stato degradato a post di analisi sui social, titoloni allarmistici di giornale e opinioni personali più che ad analisi ben fatte. I soli settori dell’alberghiero e della ristorazione hanno visto esplodere già nei primi due trimestri del 2022 il lavoro intermittente, a chiamata, quello poverissimo a circa 85 euro settimanali per meno di otto ore dichiarate, fin quasi il 180% in più rispetto allo stesso periodo 2021, che era ancora in scacco alla pandemia (dati Inps). Nessuno lo chiama per nome: lavoro sottopagato quando dichiarato e lavoro nero per il fuori busta ad arrotondare il misero salario. Ma dare la colpa al Reddito di cittadinanza fa risparmiare in ogni senso: dalle energie alle casse di chi offre quel lavoro.

© Riproduzione riservata