Head hunting: l’arte di saper ascoltare

Confessioni di un cacciatore di teste raccontate da lui medesimo… Vediamo quali sono le tre categorie di domande giuste da porre ai candidati per misurarne l’adesione al mandato delle aziende. Per sondarne e indagarne accuratamente capacità professionali ed emotive

Allineare traiettorie che stanno, inconsapevolmente, convergendo». Questo è ciò che mi piace rispondere alla domanda su cosa io faccia, o in cosa consista esattamente il mio lavoro di head hunter. È un’operazione dalla dinamica piuttosto semplice: l’azienda A sta cercando un manager per un determinato ruolo, ne parliamo, e a me viene in mente il candidato B. Li presento, si piacciono e il gioco è fatto… e tutti vissero felici e contenti.

Solo che, come capita spesso nella vita, le cose semplici possono essere estremamente difficili. Perché, nel nostro caso, il numero di variabili da allineare affinché A e B si scelgano reciprocamente (per posizioni “C Level” il potere di scelta tra azienda e candidato è tendenzialmente 50-50) è estremamente elevato. E, conseguentemente, un processo di executive search spesso può risultare lungo, articolato e pieno di insidie. Inoltre, bisogna considerare che un errore nella decisione può avere conseguenze molto gravi per entrambe le parti coinvolte (oltre a minare, spesso irrimediabilmente, il rapporto di fiducia tra cliente e consulente) e che pertanto, per poter valutare l’effettiva convergenza delle due traiettorie, diventa fondamentale conoscere in modo molto approfondito sia l’azienda sia i candidati.

Come fare, quindi, per rendere un’intervista veramente efficace? Quali sono le domande attraverso cui arrivare a una conoscenza reale, autentica e profonda del candidato che si ha di fronte? E come ascoltare le risposte che vengono date? Come valutarle e cosa trattenere davvero? Desidero qui condividere alcuni spunti che derivano dalla mia esperienza di oltre 30 anni di interviste, prima ricoprendo ruoli di Hr in aziende multinazionali e da oltre 15 in qualità di head hunter.

Innanzitutto, diciamo che un’intervista mira a esplorare dimensioni e ambiti di competenza diversi, e che per ognuno di essi possono risultare efficaci un approccio e tipologie di domande differenti. Vediamone insieme alcune tra le più importanti:

  • STRATEGIC THINKINGUna dimensione fondamentale per ogni ruolo executive, e paradossalmente forse la più semplice da valutare. Io di solito scelgo di fare domande ampie, che si prestino ad approcci interpretativi differenti, per vedere quali saranno l’altezza, l’ampiezza e la profondità della risposta (elementi a mio avviso più interessanti e indicativi rispetto alla risposta in sé). Ad esempio, la domanda – «mi aiuti a comprendere qual è il vostro scenario competitivo attuale, e qual è il suo pensiero circa le strategie più efficaci per affrontarlo» – può essere sviluppata con angolazioni molto diverse; alcuni sceglieranno un taglio molto alto, quasi accademico, senza mai “sporcarsi le mani” con indicazioni concrete, mentre altri – dopo una vaga enunciazione di massima – entreranno subito nel dettagliare piani operativi e azioni concrete. Di fronte a questo genere di domande, infatti, ogni candidato ci rivela quale sia il suo baricentro in termini di pensiero, quale la sua “quota di crociera” naturale.

  • DRIVE FOR RESULTSPer rilevare attitudine e capacità di conseguire risultati, da soli o insieme al proprio team, ritengo sia efficace condurre il candidato attraverso un percorso in cui alla narrazione di casi di successo, si affianchi quella relativa a esperienze che si sono rivelate meno positive, o – meglio ancora – fallimentari. L’apertura a condividere le seconde sarà tanto più elevata quanto il candidato si sentirà soddisfatto, compiaciuto, per aver potuto condividere le prime. E, infatti, lo scopo della prima parte delle domande sarà più che altro finalizzata a lasciar esprimere il proprio ego, e i commenti di tenore positivo avranno l’effetto di abbassare le sue difese, per poter entrare davvero nel “cuore” del problema con domande come: «mi racconta invece l’insuccesso che ancora le brucia?», «quali furono le azioni correttive che lei propose per invertire la rotta?», «nella lettura che ne può dare oggi, a distanza di tempo, quali furono gli errori commessi?», «che cosa non si è ancora perdonato rispetto a quella esperienza, quali le decisioni che allora prese (o non) e che potendo tornare indietro rifarebbe diversamente?». Bisogna sottolineare che, rispetto a queste risposte, è fondamentale attivare un doppio livello di ascolto. Da un lato, naturalmente, sul piano concettuale – per verificare il rigore logico e la sequenzialità delle argomentazioni –, e dall’altro (e direi in modo ancora più importante) occorre ascoltare il flusso delle sue emozioni. Perché una regola fondamentale dell’esistenza umana ci dice che raccontando, noi riviviamo. E rivivendo, riveliamo. I fatti, ma soprattutto le emozioni. E sono soprattutto quelle a cui dobbiamo guardare in questo caso. La silenziosa e inesorabile eloquenza delle emozioni ci dirà, infatti, se chi abbiamo di fronte sia davvero un combattente, a cui bruciano ancora le cicatrici delle sconfitte rimediate, oppure qualcuno che si è serenamente autoassolto, trovando magari un qualche capro espiatorio su cui scaricare ogni responsabilità.

  • LEARNING AGILITYIn un mondo che cambia continuamente e talvolta in modo improvviso e radicale, come la crisi recentemente innescata dal Covid-19 ha dimostrato, diventa fondamentale saper adattare il nostro approccio, il nostro business, le nostre organizzazioni e, ovviamente noi stessi, alle nuove circostanze, così da poter prevenire i rischi e cogliere le opportunità insite in ogni crisi o situazione di cambiamento. La capacità di apprendere, di adattarsi, di evolvere diventa un tratto essenziale per poter esprimere un ruolo di leadership, ed è fondamentale quindi saperla rilevare e valutare. Personalmente guardo soprattutto a due cose: la capacità di imparare dai propri errori, il coraggio di ammetterli e di darne una lettura critica e obiettiva a posteriori, come pure la capacità di apprendere dagli altri a 360 gradi. Per rilevare questi aspetti faccio spesso domande come, ad esempio: «mi racconti di una situazione in cui ha potuto imparare qualcosa di importante da un suo collaboratore», oppure «chi sono i suoi mentori? Quali sono le aree rispetto alle quali si confronta più spesso con loro per evolvere ed essere più efficace?», o ancora «quali sono gli errori che ha commesso dai quali ha saputo trarre maggiore insegnamento?».

Infine, merita alcune riflessioni il tema della leadership, una dimensione tanto essenziale quanto vasta, che si può declinare in modi molto differenti. Vediamone alcuni. Rispetto alla capacità di gestire un team, o un collaboratore, uno degli aspetti più interessanti è a mio avviso la capacità di essere lucidi e saper prescindere dalle proprie emozioni, dalla propria pancia. Mi capita spesso di indagare proprio questo, chiedendo come sia stata gestita una situazione problematica o in cui magari ci fosse un collaboratore dotato di talento col quale però non ci fosse assolutamente chimica, o che magari era inviso al resto della squadra. Mi concentro sulle sue capacità di analisi dei tratti della personalità, degli elementi di ingaggio o motivazione sui quali ha scelto di fare leva per risolvere la situazione, prescindendo dalle (o almeno tenendo a bada) le proprie emozioni o reazioni istintive. Un’ultima considerazione su un tratto della leadership oggi più che mai essenziale: l’autenticità. Viviamo un tempo in cui non è più possibile pensare di ottenere rispetto, riconoscimento, autorevolezza, fiducia da parte degli altri se non si è autentici. E quanto più la generazione dei millennial (nonché quelle successive) cresce all’interno delle organizzazioni, tanto più questo diventa un elemento centrale. Rispetto a questa dimensione non esistono domande specifiche, quanto piuttosto è essenziale un ascolto più profondo, direi in controluce, della persona che abbiamo di fronte. Per esperienza, tendo a dare molta rilevanza alla trasparenza con cui nel corso dell’intervista vengono lasciati emergere indicatori essenziali quali emozioni, paure, errori, dubbi, rimorsi, incertezze, fallimenti piccoli o grandi. Nel mio lavoro mi incontro quotidianamente con persone che hanno conseguito molto successo nella vita, e ricoprono ruoli di grande prestigio e potere. So bene come nessuno sia esentato dal dover convivere, spesso combattere, con questi nemici invisibili che abitano nel nostro animo. E come proprio il coraggio di lasciar trasparire i segni di questa battaglia continua sia ciò che possa rendere un leader veramente credibile, autentico, percepito vicino dal proprio team e da ogni singola persona, qualcuno da cui lasciarci ispirare e per il quale dare tutto il nostro contributo con entusiasmo e passione.

*L’autoreMassimo Picca è Senior Client Partner di Chaberton Partners, società fondata a Lugano nel 2017 da Christian Vasino (ex VP Human Resources di Adecco e Pirelli) e attiva nel settore Human Capital, dove offre un portafoglio di soluzioni Hr su scala globale. In precedenza in Korn Ferry, Picca è tra i più apprezzati professionisti dell’executive search nel settore Consumer a livello internazionale, con una conoscenza particolarmente profonda del mercato italiano in merito a Fmcg, Cosmetica, Retail, Media & Sport. Vanta un’esperienza di circa 30 anni maturata nella già citata Korn Ferry, Eric Salmon e Russell Reynolds, e in precedenza ha lavorato nel Hr in Rcs Media Group, Kraft Mondelez, Coca-Cola e L’Oréal, di cui è stato direttore risorse umane per l’Italia.

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