Che cos’è il merito?

E come si possono valutare le persone, i manager, i dirigenti che valgono da quelli che hanno raggiunto determinate posizioni solo grazie alle proprie conoscenze? Sempre più spesso è difficile discriminare chi vale da chi è raccomandato. Sempre più spesso le posizioni ai vertici di enti, istituzioni e imprese sono occupate da manager mediocri. Abbiamo chiesto a due osservatori privilegiati, giorgio vittadini e pierluigi celli, di darci la loro opinione sull’argomento e di aiutarci a capire come è possibile costruire una società che valorizzi davvero il merito

IL MERITO È NELL’IMPREVISTO

GIORGIO VITTADINI, FONDATORE E PRESIDENTE DI FONDAZIONE PER LA SUSSIDIARIETÀ

Cos’è il merito?

Un gesto, qualunque gesto, che collabora al bene del mondo. Questo accomuna il grande capitano d’industria e l’operaio alla catena di montaggio. La collaborazione al bene del mondo non contraddice mai il bene del singolo, infatti vivere all’altezza dei propri desideri veri, non ridurli, implica il contribuire al bene del mondo. Il merito è ciò che l’uomo desidera, e non è la riuscita, come valore dato da altro – la posizione, i soldi, il successo – che rende l’uomo un alienato.

Questo concetto stride molto con l’idea di merito legata alla competenza, alla bravura, all’eccellenza…

Il problema è questo: può nel lungo periodo un’idea di merito basata sulla competenza, sulla bravura e sull’eccellenza portare a costruire una società equilibrata? No, l’idea di merito attuale emerge in epoca moderna quando si afferma il concetto di divo o principe inteso come unico artefice della propria fortuna, colui che raggiunge l’eccellenza in un particolare della sua vita, qualunque esso sia, e non necessariamente teso a realizzarsi in tutte le dimensioni della sua umanità. Una società che intenda il merito in questo modo è inevitabilmente una società che crea esclusi. L’esempio più clamoroso è rappresentato dalle scuole di eccellenza statunitensi dove è estremizzato il concetto di riuscita: emergono i migliori in matematica, disegno o altro e con il quoziente di intelligenza più elevato, che quindi riescono ad andare nelle migliori università. È il “we can”, ben prima di Obama. La crisi finanziaria è figlia di questo: cos’è il merito se non il guadagnare di più? Se poi il guadagno è costruito sulla falsità o sulla non coerenza tra il valore della moneta o quello reale, non interessa perché si deve enfatizzare e massimizzare il profitto di breve periodo. Il fatto che intorno a noi si creino quelle che un mio professore definiva “esternalità negative” (influenze negative sul benessere di un altro soggetto), non interessa. Questa idea distorta di merito dimentica che a un essere umano e a una società questo non può bastare.

Come è possibile cambiare la situazione?

Educando. L’educazione è un desiderio complessivo di verità, giustizia e bellezza. Per esempio, non si può costruire una società dove il legame familiare è subordinato all’idea di riuscita personale e l’educazione dei figli al raggiungimento del massimo risultato, dove le differenze sociali sono tali per cui si crea povertà, disparità e ingiustizia. Se ciò accade, l’uomo si ribella in mille modi, con la frustrazione, i tic nervosi, l’evasione e anche la generazione di mondi virtuali.

Solitamente il merito è definito in contrapposizione a gerontocrazia, clientelismo, raccomandazioni…

Se il merito non tiene conto dell’uomo reale e di tutte le sue dimensioni – come quelle relazionali -, crea immediatamente clientelismo perché il “divo” per la sua costruzione di potere non pensa agli altri, ma a sé. Qual è l’anticorpo rimasto nelle società occidentali europee? Il soggetto sociale, inteso tanto come famiglia quanto come realtà religiosa e associativa. Il desiderio di emergere all’interno del contesto sociale è, infatti, equilibrato da altri fattori. Non dimentichiamo del teorema dell’impossibilità di Arrow, premio Nobel nel 1972, che indica come conciliare l’utilità individuale con il benessere collettivo. In particolare, dice che se l’utilità individuale non è subordinata a null’altro, l’esito in campo economico è il monopolio e in campo politico la dittatura, perché l’utilità più forte si mangia le altre. Ma Arrow dimostra anche che per superare questo limite è necessario che in un sistema trovino spazio i “desideri socializzanti”, cioè i desideri personali che trovano espressione nella costruzione sociale. A questa condizione si alimenta la concorrenza in ambito economico e la democrazia, con una reale alternanza, in quello politico. Tutti quelli che, anche filosoficamente, hanno parlato della società dei meriti, hanno creato le più grandi dittature.

Le si potrebbe obiettare che viviamo in una società dove c’è una cultura totale del non merito.

La parrocchia e il circolo comunista di una volta erano luoghi dove il merito – e lo dimostra la storia dell’Italia – c’era, eccome, perché ciascuno voleva bene alla gente e si dava da fare per loro. Allora si aveva un ideale e non era ammissibile farsi i fatti propri. La pigrizia è figlia della mancanza di ideali, la mafia è figlia della mancanza di ideali, così il clericalismo che è la degenerazione del cattolicesimo ridotto a potere.

Oltre a educare che cosa bisogna fare?

L’educazione ha insita in sé la valorizzazione delle eccellenze reali, perché quando capisco che una persona agisce per il bene comune la valorizzo. Se, invece, il giudizio deriva da uno schema precostituito, allora il merito non emergerà mai. Al modello americano, nonostante la strenua difesa della riuscita, va riconosciuto che offre la possibilità di emergere più facilmente di quanto non accade in Europa, aspetto che fa parte della cultura di una nazione giovane come gli Usa. Ma tornando al merito, se una persona ha una forza reale accetto che comandi su di me. Questo non avviene quando il sindacato difende i privilegi – è giusto difendere i diritti dei lavoratori, ma non a scapito della crescita del sistema Paese – e quando la politica si arroga il diritto di decidere chi vale. La destra ripropone lo statalismo a livello locale. La sinistra non accetta che la scuola sia libera, che l’università competa sul libero mercato e che il welfare sia libero. Entrambe vogliono governare i meriti. A destra e a sinistra, le associazione industriali e i sindacati vogliono essere loro a determinare il potere perché ritengono di essere portatrici di bene. È la degenerazione che hanno avuto i cattolici al potere perché dopo 50 anni di governo hanno pensato di essere loro il bene e quindi di poter decidere chi era meritevole. Facciamo un esempio clamoroso: l’Irap. È stata creata dal centro-sinistra, ma il centrodestra non l’hai mai levata. L’Irap è una tassa contro il merito, perché ricade su chi crea lavoro, invece di premiarlo con la detassazione. Ma l’Irap paga la sanità, per questo motivo nessun politico la vuole eliminare.

Cosa vuol dire favorire il merito nelle imprese?

Dove veramente conta il mercato, per la teoria del capitale umano, l’imprenditore non può fare altro che premiare il merito. Non avrebbe senso che una piccola impresa licenziasse o non valorizzasse i dipendenti che valgono, perché questo sarebbe contrario al bene dell’azienda. Dove avviene questo? Nelle realtà in cui il giudizio non è predeterminato. Premiare il valore vuol anche dire far saltare gli schemi, vuol dire che il ragazzo discolo a scuola può essere il migliore della classe. Se la maestra lo capisce, quel bambino può essere il primo, ma non accadrà nel momento in cui l’insegnante ha in testa un’idea di merito che le hanno messo dentro i pedagogisti a la page, per cui l’allievo deve essere “a posto” secondo uno standard precostituito. Come se l’ideale fosse avere persone tutte uguali. L’idea di merito da cui siamo partiti “fa rima” con imprevisto. Al contrario, oggi, tutto quello che non è codificato non va bene, né il genio né il diverso.

Eppure la Pmi italiana ha dimostrando di valere superando la crisi, ma ancora oggi non c’è nulla che la incentivi, a partire dalla Finanziaria.

Basti dire che le banche operano non andando a vedere il valore reale di un’impresa; il direttore di banca non esercita la sua capacità di valutare il merito rischiando con le imprese. Il merito implica un giudizio, il che è un rischio per chi valuta perché anche l’arbitro deve essere misurabile. A proposito di merito, perché non si dice mai che l’Italia è uno dei primi tre/quattro Paesi per tasso di sopravvivenza? La qualità della vita è un indicatore sintetico, un dato oggettivo di merito, molto più efficace del Pil. Tant’è che non abbiamo quattro o cinque campioni nazionali, ma decine di imprese che, penalizzate e non essendo valorizzate, si vanno a cercare il merito oltreconfine e nonostante tutto campano, perché un imprenditore che vale in Italia riesce a vivere. Cosa sarebbe di questo grande risultato positivo se si valorizzasse il merito?

CONTRO LA MEDIOCRITÀ

PIERLUIGI CELLI, DIRETTORE GENERALE DELL’UNIVERSITÀ LUISS DI ROMA

Clientelismo, gerontocrazia, cultura del compromesso, scarsa attenzione alla formazione quali sono gli altri mali del non merito?

Il tentativo di affiliarsi indipendentemente da quello che si è in grado di fare e semplicemente puntando dove si vuole arrivare. Se una persona vuole arrivare in un posto e sa che non ci può arrivare con le sue sole forze cerca la cordata migliore per raggiungere questo obiettivo indipendentemente dal fatto di essere o meno bravo.

Qual è il costo del non merito?

È il fatto di avere una classe dirigente mediocre e quindi una classe dirigente che non è preoccupata di una situazione, di un’organizzazione, di un’impresa, di un’istituzione e di un Paese ma semplicemente di preservare se stessa. Un mediocre in posizione di responsabilità non solo non produce risultati soddisfacenti, ma passa la maggior parte del suo tempo a difendersi da quelli più bravi che cercano di superarlo. Poi c’è un terzo elemento: se un mediocre raggiunge un certo livello rapidamente si convincerà non solo di non essere mediocre ma di essere adatto anche a una posizione superiore.

Lei ha definito il merito come “la differenza tra sapere e non sapere”.

Il merito non è semplicemente una questione di conoscenza, il sapere è molto di più della conoscenza, perché comprende anche le conoscenze di una persona, le sue esperienze, la sua storia, le sue relazioni, le pratiche che ha fatto e non ha fatto. Non è solo il conoscere ma un bagaglio dato da tutta una serie di esperienze fatte e compiti svolti.

Come si può valutare questo bagaglio di conoscenze?

Si valuta mettendo le persone alla prova e vedendone i risultati. Non il successo perché il successo ha delle componenti molto diverse. Può essere legato alle relazioni sociali per cui una persona in qualche modo si accredita indipendentemente dalla sostanza delle cose. Il successo nella maggior parte dei casi non è veritiero. I risultati ottenuti dicono molto di più.

Qual è il limite tra la segnalazione di un candidato per un determinato posto di lavoro e la raccomandazione?

La segnalazione comporta che chi segnala è anche responsabile della qualità del candidato perché l’ha provata direttamente o ne condivide la responsabilità. La raccomandazione è voler promuovere una persona indipendentemente dai risultati che ha ottenuto e otterrà e in ogni caso senza alcuna responsabilità personale per averlo segnalato.

Che cosa dobbiamo insegnare, proporre ai giovani per costruire una classe dirigente basata sul merito?

Bisognerebbe mostrare loro che il merito paga, ma è difficilissimo perché nella maggior parte dei casi non è così. Quindi bisogna avere molta pazienza e autorevolezza nel dire che tutto sommato è meglio impiegare più tempo e farsi valere per quello che si è piuttosto che bruciare le tappe. Bisogna lavorare molto sui valori personali, sul senso di responsabilità e sul rispetto di se stessi.

Quando parla di autorevolezza sottintende il fatto che ci vorrebbero maestri in grado di dare il giusto esempio?

Non ce ne sono più di maestri. Essere maestri oggi implica il fatto che bisogna dedicare tempo ai giovani, ma oggi nessuno ha più tempo per gli altri. Più sei costretto a correre e spendere tempo in relazioni e meno hai tempo da dedicare ai giovani. Tanto vale andare nei salotti. Un buon salotto aiuta di più di un buon risultato.

La situazione è negativa. Ma è destinata a cambiare?

Non ho detto che è negativa, sono nato ottimista, anche perché, per come siamo messi, è necessario che cambi qualcosa. Tra un po’ ci supereranno anche i Paesi che noi definivamo e pensavamo del terzo mondo. Credo che nelle nuove generazioni questa voglia ci sia. Dipende da quanto ci mettono a raggiungere posizioni di responsabilità e quanti saranno in confronto a coloro che invece arrivano da altri percorsi.

La globalizzazione ha imposto alle imprese una concorrenza sempre più forte. Questo dovrebbe aver innescato un circolo virtuoso: solo le organizzazioni più solide, capaci possono sopravvivere. È la rivincita del merito?

Credo che la globalizzazione abbia tanti lati negativi come abbiamo visto con la crisi recente, ma anche il merito perché più si entra in un mercato regolato, non dallo Stato ma da altri principi, tanto più si deve competere su ciò che si sa fare. Il confronto internazionale è quello che ci permetterà anche di cambiare i parametri nazionali. È necessario promuovere quelli che meritano perché sono quelli che sui mercati internazionali ci fanno stare con più dignità e più risultati.

Come è possibile proporre un’etica nuova basata sul merito?

Pensavo che la crisi fosse una condizione ideale per cambiare ma ho l’impressione che la stiamo metabolizzando al ribasso e quindi stiamo perdendo l’occasione per un miglioramento. Mi auguro che il confronto a livello internazionale, con i migliori, ci impedisca di fare ciò. Ancora una volta saremo debitori dell’importazione di valori.

Come è possibile creare una “filiera del merito”?

È necessario partire dalla scuola in maniera tale che la scuola sia seria, selettiva, non selettiva sulla base della famiglia o di chance esterne come reddito, ma che offra un’opportunità a tutti e che poi sia selettiva. Non è vero che tutti devono arrivare in cima. In cima ci devono arrivare solo coloro che sono bravi ma bisogna dare a tutti la possibilità di dimostrare il proprio valore. Alcuni ancora oggi hanno la possibilità di dimostrarlo più di altri e questo non va bene.

Ma nel concreto come riformerebbe la scuola?

Bisogna partire dal basso e poi arrivare all’università. Il problema dell’università è abbastanza serio perché il modello dell’accademia non sempre è coerente con il merito. Accade quando un giovane arriva in un posto solo perché il professore tende a promuovere i suoi allievi senza regole di controllo, per cui non sono i migliori quelli che vanno in cattedra ma quelli che passano più tempo con lui. Di conseguenza i migliori se ne vanno, come sempre succede, vanno all’estero, oppure scelgono di lavorare nelle imprese o mettersi in proprio e l’accademia risulta impoverita perché largamente alimentata da portaborse.

Ci sono personaggi eccellenti che possono essere presi a modello?

Non so se possono essere presi come modello, ma alcuni hanno idee abbastanza chiare e sanno che se non si seleziona una classe di migliori, di quelli che hanno interessi globali, complessivi, civili, se noi continuiamo a proporre un modello per cui tutto è fazione e parte, per cui il confronto non è più tale ma uno scontro in cui ognuno pensa che l’altro debba soccombere, è chiaro che è difficile ragionare in termini di merito. In tal caso prevale solo l’affiliazione. Per cui se sei contro di me o la pensi diversamente necessariamente prima ti ammazzo e meglio è.

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