La Cina è padrona del mercato delle materie prime

Il Critical Raw Materials Act europeo prova a invertire la tendenza, ma al momento la dipendenza dal colosso asiatico è pressoché totale

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Magnesio, tungsteno, grafite… Sono solo alcune delle materie prime il cui mercato è attualmente nelle mani della Cina. Il colosso asiatico è infatti ampiamente in testa a quella che il Wall Street Journal ha definito “la guerra dei minerali”, un trend che l’Unione Europea sta cercando di invertire.

Con il Critical Raw Materials Act entrato in vigore due mesi fa la Commissione Europea cerca di porre enfasi sull’autosufficienza, sulla necessità di non dipendere, come sistema internazionale, quasi interamente sulla Cina o sulla Russia per quanto riguarda la fornitura di elementi ormai diventati fondamentali per l’industria, la tecnologia e lo stile di vita della popolazione. I primi campanelli d’allarme sono arrivati dopo lo scoppio della guerra tra Russia e Ucraina, quando ci si è resi “improvvisamente” conto che dipendere dal Cremlino per quanto riguarda il gas avrebbe portato a enormi criticità.

La maggior parte delle materie prime, tuttavia, sono soprattutto in mano alla Cina: litio, nickel e cobalto per le batterie elettriche, boro per le turbine eoliche, magnesio per aerei e satelliti, terre rare per altri comparti come schermi e laser, ma l’elenco condiviso nella grafica di Affari & Finanza di Repubblica va avanti ancora a lungo. La Cina, ad esempio, controlla il 69% della produzione globale di tungsteno, il 99% di elementi rari e il 98% di terre rare pesanti.

Grafico pubblicato lunedì 27 maggio sull’inserto Affari & Finanza di Repubblica

Anche i singoli Paesi, sottolinea la fonte, si stanno muovendo: la Francia ha destinato 2 miliardi per diversificare le forniture, l’Italia e la Germania invece uno, mentre gli Stati Uniti per il piano verde di Joe Biden hanno stanziato 8 miliardi di dollari. La quota di mercato controllata dalla Cina, tuttavia, continua a crescere grazie a investimenti in miniere e capacità di raffinazione. Inoltre, il colosso investe miliardi e miliardi in concessioni in Argentina, Congo, Indonesia e molto altro.

«Buona parte dell’obiettivo dipende dalle imprese private – spiega Francesca Ghiretti, ricercatrice del think tank Csi citata da Affari & Finanza – ma non è chiaro in che misura il regolamento europeo risponda alle loro esigenze». Il Critical Raw Materials Act vuole raggiungere il 10% dell’estrazione e il 40% della raffinazione entro il 2030, oltre ad una quota del 25% di riciclo. Ma, per ora, punta a farlo solo tramite permessi accelerati. La collaborazione con Paesi estrattori come Cile, Argentina, Canada, Kazakistan e Congo diventa sempre più importante, quindi: «Sono accordi governativi – ha detto delle partnership siglate dall’UE – memorandum non vincolanti dove spesso manca il coinvolgimento delle aziende, mentre quelle cinesi sono presenti negli stessi Paesi e coinvolte in grandi progetti di estrazione».

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