Si è sgonfiata la Gig Economy?

Dopo il boom pandemico, i protagonisti del cibo a domicilio cominciano a ritirarsi uno dopo l’altro. Ecco come sta evolvendo il settore tra rivendicazioni dei lavoratori, tentativi di regolamentazione e nuove esigenze dei consumatori

Gig Economy© iStock

Della Gig Economy sappiamo solo il peggio, forse perché il meglio non c’è. Oppure, ogni tanto, veniamo a sapere il nome e cognome di qualche rider che perde la vita in strada perché la società, le piattaforme e i consumatori nel frattempo hanno perso la testa. Dei rider possiamo conoscere le sentenze con cui i vari tribunali – un passo alla volta, una sanzione alla volta – negli ultimi anni ne hanno tratteggiano la fisionomia da fuori, vale a dire quella di “coordinati continuativi” con tutte le garanzie dei subordinati, altro che lavoratori autonomi. Questo sappiamo, per il resto sono una massa invisibile di uomini e donne su due ruote che danno da mangiare a un mercato malato e scellerato. All’inizio credevamo che a fare i rider fossero solo giovani studenti o giovani lavoratori, gente che arrotondava dentro un contesto innocuo. Poi abbiamo iniziato a capire che il sistema delle varie Glovo, JustEat, Deliveroo, Getir, Uber Eats aveva un’idea del lavoro e dell’impresa molto soggettiva: solo profitto, zero tutele, sicurezza dei lavoratori inesistente, stress e pressioni, e soprattutto un algoritmo disumano al posto di un datore di lavoro.

Le notizie rilevanti degli ultimi mesi sono due, mai felici. La prima è che Uber Eats Italy e Deliveroo, che nel 2021 erano già finite in mezzo a un’indagine pilota della Procura di Milano sulle condizioni di lavoro e di sicurezza di circa 60 mila rider, dovranno versare all’Inps i contributi per migliaia di loro: il totale non è ancora conteggiato, ma si ipotizzano decine di milioni di euro. Avevano intentato causa contro l’Inps ma l’hanno persa, nel frattempo qualche mese fa Uber Eats Italy aveva già lasciato il nostro Paese. L’altra notizia è l’inchiesta spiazzante del Gambero Rosso che ha portato ad analizzare in laboratorio la sacca di un rider per valutarne il livello igienico-sanitario, facendo sapere al mondo intero che in media, in mezzo al food delivery in arrivo dentro casa, si annidano circa 200 colonie di batteri.
A dire il vero ci sarebbe da raccontarne una terza: il licenziamento comunicato via mail da Uber Eats a 4 mila rider e che un’ennesima sentenza del Tribunale di Milano ha dichiarato illegittimo a settembre scorso.

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Il mondo della Gig Economy visto dai rider

Rosita Rijtano, giornalista di lavialibera è in libreria con Insubordinati. Inchiesta sui rider (GEA, Gruppo Abele Edizioni), vincitore tra l’altro del Premio Oxfam Raccontare la disuguaglianza. Al di là del libro, ha l’occhio vigile sul tema ormai da tempo. L’intuizione di indagare il mondo della Gig Economy visto con l’occhio dei rider le è venuto in pandemia, quando il ruolo di chi portava da mangiare direttamente a casa era stato definito “indispensabile”.

«Volevo capire se a questo essere indispensabili corrispondessero delle tutele, e se questo potesse essere un banco di prova per capire fin da adesso le possibili modalità di lavoro del futuro. Mi riferisco a una estrema precarizzazione e autonomizzazione del lavoro – si viene retribuiti a prestazione, come se il barista venisse pagato in base al numero di caffè che prepara – e l’altro aspetto da notare è come il mondo tecnologico non fosse mai stato così pervasivo grazie a tutta una serie di dati che raccoglie e intercetta sia sulle persone che sulle prestazioni; un recensissimo studio di ricercatori ha evidenziato che Glovo raccoglieva tramite smartphone i loro dati anche fuori dall’orario di lavoro, compresa geolocalizzazione personale, mail, dati sensibili, per rivenderli a società terze molto attive nel marketing».

Anche in questo campo è stata la pandemia a segnare un prima e un dopo in termini di consumi. Quello che non è mai certo e stimato è il numero effettivo dei lavoratori digitali del food delivery: la Ue, che negli ultimi mesi sta lavorando proprio sui criteri utili a definire se e quando l’attività vada ricompresa tra le subordinate e non autonome, è addirittura convinta che un lavoratore su cinque sia classificato in modo non corretto e che ben 5 milioni di lavoratori della Gig Economy sarebbero veri e propri dipendenti. «Le piattaforme digitali hanno rivelato un modello di business non sostenibile, tutto a scapito dei lavoratori, e le sentenze servono a ridefinire meglio i vuoti, ma di certo la giurisprudenza non incide sui consumi o sulle abitudini».

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Just Eat: accordo con i sindacati e assunzione per i dipendenti

Provando a cercare del buono, c’è da spiegare cosa ha significato che JustEat nel marzo 2021 abbia siglato un accordo con Cgil, Cisl e Uil per arrivare poi ad avere il primo sindacalista, Talem. Dopodiché ha assunto i suoi dipendenti ma chissà se è stata realmente sia una mossa a loro tutela. «Bisogna capire che c’è stato un cambiamento nel modello di affari su cui si basa Takeaway, la società che ha inglobato JustEat. Lo chiamano modello Scoober, applicato già in altri 12 Paesi: i rider vengono assunti come dipendenti ma non da JustEat. Per esempio, in Gran Bretagna lo fa Randstad, agenzia interinale olandese con cui Takeaway collabora a livello globale. Secondo molti è un tentativo per esonerare dalle responsabilità le piattaforme della Gig Economy quando nascono problemi. Anche in Italia non è così remota che venga replicata la stessa strategia. È vero che il contratto è stato meglio di niente, ma è pur sempre una sconfitta a metà».

Dalla politica è arrivato poco nel corso degli anni in termini di regolamentazione, la vera conquista è stata senz’altro il riconoscimento dell’assicurazione Inail in capo ai rider a partire dal 1° febbraio 2020. «L’unica cosa buona è stata l’adozione, appunto, dell’assicurazione, per quanto con dei limiti dato che la copertura c’è solo nel momento della consegna, da quando il rider accetta la notifica a quando raggiunge il destinatario, ma non al di fuori di quel lasso temporale». L’ultima a uscire dall’Italia è stata Getir, piattaforma di origine turca che, dopo il nostro Paese, lascia anche Spagna e Portogallo per tenere fede alla quota centrale del suo business localizzato per il 96% tra Regno Unito, Stati Uniti, Germania, Paesi Bassi e la stessa Turchia: si era imposta per il modello del time saving – soprattuto in città come Milano, Torino e Roma – ma non è bastato.

Che questo mercato si stia razionalizzando è evidente, meno evidente è come diventerà da qui a cinque anni. Lo confermano non solo le uscite di Uber Eats, poi di Getir e Gorillas, piattaforma tedesca, ma la resa dei grandi nomi del food delivery davanti a tre concetti base: un serio inquadramento contrattuale, il rispetto delle norme igienico- sanitarie e la ripresa del mangiare fuori casa dalla fine della pandemia in poi.

Credevano bastasse far pedalare velocemente i rider, mettendoli sotto scacco con gli algoritmi, per scalare quote di mercato e fatturati sulla pelle dei fattorini digitali. Si sbagliavano. Peccato siano stati i tribunali, e non i clienti per primi, a farci aprire gli occhi su tanta ingiustizia intorno a quelli che ingenuamente, fino a pochi anni fa, chiamavamo solo lavoretti.

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