Anche se il periodo più difficile sembra ormai giunto al termine, non possiamo ancora tirare un sospiro di sollievo. Una quota consistente di nostri connazionali, infatti, continua a vivere difficoltà economiche importanti. A rivelarlo è un’indagine realizzata dall’Ufficio studi della Cgia (Associazione artigiani e piccole imprese), secondo cui tra il 2006 e il 2016, in Italia, il rischio di povertà o di esclusione sociale è aumentato di quasi quattro punti percentuali, passando dal 26% circa al 30%. Tradotto in numeri, significa che 18,1 milioni di persone sono in condizioni precarie o di deprivazione, contro i 15 milioni del 2006. La situazione peggiore si registra al sud. I dati 2016, infatti, dimostrano che il rischio povertà ha raggiunto quote record in Sicilia (55,6%), in Campania (49,9%) e in Calabria (46,7%).
Il livello medio europeo, invece, è salito solo di un punto, attestandosi al 23,1%: 6,9 punti in meno rispetto alla nostra media. In Francia e in Germania il rischio povertà è addirittura diminuito in questi dieci anni. Per quali ragioni? Secondo gli esperti sono essenzialmente due i motivi che stanno affossando il nostro Paese: tasse record e una spesa sociale tra le più basse d’Europa. Basti pensare che in Italia la pressione tributaria (peso solo di imposte, tasse e tributi sul Pil) è al 29,6% (2016), la più elevata nell’Ue. Invece, al netto della spesa pensionistica, il costo della spesa sociale sul Pil (disoccupazione, invalidità, casa, maternità, sanità, assistenza,) è pari all’11,9%. Ebbene, solo la Spagna ha una quota inferiore alla nostra (11,3% del Pil), ma la pressione tributaria nel paese iberico è -7,5% rispetto alla nostra.
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