Era la tessera più instabile nel domino dei Piigs, l’acronimo dispregiativo che indicava le economie più barcollanti del Sud Europa, scosse dalla crisi del debito (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna). Sette anni dopo, mentre Cristiano Ronaldo, uno dei suoi cittadini più famosi e facoltosi, ha conquistato l’Italia del pallone (ma non solo), il miracolo lusitano è una delle storie di cui l’Unione europea va più orgogliosa. Ben prima della Grecia, nel 2011, il governo di Lisbona si era dovuto mettere nelle mani della Troika, chiedendo un prestito di 78 miliardi di euro, erogato in cambio della promessa della solita cura lacrime e sangue. Non aveva molte alternative, oltre alle preghiere, che evidentemente hanno funzionato. Gli indicatori macroeconomici dicono che il Paese è pressoché rinato. Nel 2017, l’economia è cresciuta del 2,7% e, secondo le ultime stime della Banca del Portogallo, correrà moderatamente anche quest’anno (+2,3%) e il prossimo (+1,9%). La disoccupazione è stata sensibilmente ridotta, passando dal 17,5% – registrata a gennaio 2013 – al 7,9% di cinque anni dopo, con un’ulteriore diminuzione al 6,3%, che la banca centrale portoghese prevede per il 2019. Contemporaneamente, anche gli squilibri fiscali diventavano meno pericolosi, con il deficit che, dopo anni di finanza allegra, nel 2016 rientrava nella soglia limite del 3%, peraltro impiegato per coprire solo gli interessi sul debito. Questo dicono le cifre ufficiali diffuse dall’Istituto nazionale di statistica portoghese (Ine). Ma i numeri non raccontano la storia, al massimo aiutano a capirla meglio. La questione, quindi, è quale lezione si possa trarre dal successo portoghese.
Lisbona non ha scoperto la pietra filosofale, ma ha seguito l’unica strada a disposizione di un Paese che non può stampare moneta né fare deficit: è tornata a crescere attirando risorse da fuori, puntando su export e investimenti dall’estero. Ha riscoperto la propria vocazione turistica, ovvia in un Paese ribattezzato la California d’Europa, ma non si è limitata a questo. Il processo più interessante è stato quello in virtù del quale il Portogallo è diventato il nuovo hub europeo in termini di innovazione tecnologica e start up. Non è un caso che l’attuale segretario di Stato per l’Industria, João Vasconcelos, sia l’ex direttore di un incubatore locale, Startup Lisboa. Uno dei tanti fioriti in poco tempo nel Paese, come Inovisa, Tech Lab, Labs Lisboa. Il miracolo tech, insomma, non è accaduto per caso ma è stato il frutto di una cooperazione tra tutti i livelli dell’amministrazione, dal centro alla periferia, e di una strategia che nel 2016 ha portato al lancio della Startup Portugal, un’iniziativa pensata per attrarre giovani imprenditori con buone idee, ma pochi mezzi. Il piano comprende la Startup Voucher Initiative del valore di 10 milioni di euro, grazie alla quale gli imprenditori si vedono garantiti un finanziamento mensile, mentoring e supporto tecnico per il primo anno. Il governo ha stanziato altri 200 milioni da co-investire in start up accanto a compagnie straniere e società di Venture Capital.
Il simbolo di questa rinascita è l’Hub Creativo do Beato, un mega centro tecnologico in costruzione sulla riva orientale del Tago, uno spazio da 100 mila metri quadri. Ma non è l’unico. Lo scorso 25 maggio, a Leça da Palmeira, è statoinaugurato l’iMan Norte Hub, un altro polo tecnologico, pensato per diventare il centro gravitazionale di un network di aziende specializzate nella digitalizzazione dell’industria. Un polo nel nord del Portogallo, alternativo all’area di Lisbona per cercare di distribuire le opportunità di crescita.
Il triangolo start up-incubatori-acceleratori non contraddistingue solo la capitale. C’è molto fermento anche a Braga, importante centro universitario, e naturalmente Porto. Qui i nomi da ricordare Farfetch, Blip, Mindera, Euronext, AdClick. Ad attirare decine di imprenditori, geek e investitori non sono solo le dolci colline che si affacciano sul Douro, con le famose cantine una accanto all’altra, quanto l’Università di Porto e il Politecnico, centri d’eccellenza che sfornano giovani professionisti altamente specializzati, con un’ottima padronanza dell’inglese, ma soprattutto economici. Un programmatore con tre anni di esperienza non guadagna più 19.400 euro, uno con un’anzianità di almeno sette anni ne costa meno di 40 mila. A Berlino, Londra o Helsinki guadagnano, e costano, dalle due alle tre volte di più.
Ma non arrivano solo start up con grandi ambizioni e piccoli capitali. Anche colossi come Amazon, Google, Second Home o Zalando stanno aprendo centri di ricerca, di distribuzione o servizi nel Paese. La Mercedes, che aprirà uffici nel’hub do Beato, sta già cercando cento sviluppatori per avviare il programma Merceds Benz.io, con cui punta sull’Industria 4.0.
Il Portogallo attrae per un mix irresistibile di fattori: ha buone infrastrutture, un clima molto invitante ma soprattutto un costo della vita basso. Ed è su questo che hanno fatto leva i governi che si sono succeduti dal 2009 in poi, senza distinzione di colore, varando iniziative pensate per attrarre imprese, offrendo agevolazioni e snellendo le procedure e creando un Paese business friendly. Il programma Empresa Na Hora, consente di aprire un’attività in trenta minuti, pagando solo 360 euro. In tutto il Portogallo sono oltre duecento gli sportelli che offrono questo servizio. Oltretutto, la tassazione sulle imprese, è estremamente bassa, al 34%.
Simile, è il caso della politica pro-pensionati, varata dal precedente esecutivo nel 2009, per attrarre anziani del resto d’Europa, offrendo loro la possibilità di aumentare il proprio tenore di vita, incassando la propria pensione al lordo e spendendola in un Paese in cui la vita è molto economica. Migliaia di persone si sono già trasferite nel Paese iberico. Una mossa molto astuta che è servita a ingrossare le fila dei consumatori con un buon potere d’acquisto, importandoli da fuori.
E qui si notano le crepe sotto la superficie perfetta del sogno portoghese. Il presunto miracolo ha migliorato molti indicatori macroeconomici e ha sicuramente allontanato il rischio default ma non ha prodotto crescita del tenore di vita della popolazione. E il perché non è un mistero: il Portogallo ha puntato tutto sui bassi salari. Tanto l’export quanto gli investimenti stranieri, hanno in questo elemento la loro carta principale. Anzi, l’aumento della competitività è stato raggiunto nell’unico modo consentito a un Paese che non può svalutare la moneta: svalutando i salari, la cui quota sul Pil si è ridotta dal 46,2% del 2013 al 44,2%.
Il Paese è cresciuto ma non è aumentato il benessere, e questo è un paradosso. Come dimostrato dal Financial Times, la domanda interna è di un 25% più bassa di quella che sarebbe stata se il Portogallo avesse mantenuto il trend di crescita avuta tra il 2003 e il 2007 e addirittura del 59% di quella che avrebbe avuta mantenendo il trend 1995-1999, cioè prima dell’ingresso nell’euro. Il Paese ha trovato un suo equilibrio in un modello economico ancillare, al servizio cioè dei Paesi più ricchi. E infatti, con la crescita economica, è peggiorata la bilancia commerciale, passata da un passivo di 9,7 miliardi nel 2007 a uno di 13,9 nel 2017. Oltretutto, il tasso di disoccupazione è diminuito, vero ma, secondo il Centro per le indagini sociologiche dell’Università di Lisbona, sarebbe un 17,5%. Nelle statistiche nazionali figurano come occupazione quelli che in realtà sono lavoretti saltuari. Inoltre, secondo Eurostat, la produttività per lavoratore è stagnante, quando non in diminuzione, spia del paradosso di una crescita senza crescita. Tutti questi elementi rendono difficile rispondere a una domanda in particolare: il Portogallo è un modello da imitare? Si rischia di sentirsi come il viaggiatore de Viaggio in Portogallo di José Saramago, uno dei più celebrati autori portoghesi, che domanda in che Paese si trovi al bicchiere di vino, «che non risponde e, benevolo, si lascia bere».
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