Si fa presto a dire dismissioni

Le partecipate pubbliche valgono 100 miliardi ma rendono poco (il 3%). Rai, Fs, Anas: un'azienda su tre non è privatizzabile

Le partecipazioni statali nelle grandi aziende italiane valgono 100 miliardi di euro: si tratta di quote in 31 aziende e società, quotate e non quotate, che generano per il Tesoro nel complesso un utile netto di 2,95 miliardi di euro. Praticamente un rendimento di poco inferiore al 3% (al netto dei dividenti eventuali), che potrebbe anche essere interessante se non nascondesse situazioni molto diverse per struttura e bilanci.

PARTECIPAZIONI PUBBLICHE E DISMISSIONI

I calcoli di Stefano Caselli, prorettore dell’Università Bocconi, per l’inserto L’Economia del Corriere della Sera, mettono insieme situazioni opposte: da Eni, in perdita a causa del ribasso del prezzo del petrolio, a Leonardo, tornata a macinare utili; Consip, che fa bene il suo lavoro ma ora è finita negli scandali, e Alitalia – quella vecchia, la bad company – in amministrazione straordinaria in attesa forse di riabbracciare anche la sorella più giovane. A far guadagnare lo Stato italiano sono soprattutto Enel e Poste (circa l’8%: è il rapporto tra l’utile e il valore), davanti appunto a Leonardo (6%) e al Poligrafico (5%) e a Sogei che fa i controlli informatici sulla dichiarazione dei redditi (4%). Ci sono anche nomi poco noti come Mefop, che si occupa di fondi pensione (9%). Il buco nero oggi è rappresentato da Monte dei Paschi, di cui il Tesoro ha il 4% .

In generale, 24 società su 31 hanno un utile netto sopra lo zero o guadagnano. Oltre metà del valore complessivo dei 100 miliardi è coperto dalle tre grandi non quotate Ferrovie, Cdp e Anas che rispettivamente possono valere 38, 29 e 2,9 miliardi e che potrebbero essere cedute al mercato in caso di nuove privatizzazioni. L’ultima è stata la quotazione dell’Enav nel luglio 2016, anno in cui l’incasso da cessioni di Stato si è fermato a 1,8 miliardi circa contro gli 8 miliardi previsti (allora, lo 0,5% del Pil).

PRIVATIZZAZIONI DIFFICILI

Il piano delle dismissioni pubbliche è ripartito formalmente nel 2014 con il governo Letta che annunciò la cessione di quote di Eni, Stm, Enav, Sace, Fincantieri, Cdp Reti, Tav e Grandi Stazioni. Obiettivo: quasi 30 miliardi in tre anni, ma ne sono entrati solo una decina. Anche perché un terzo delle aziende in mano al Tesoro non è cedibile perché assimilato alla pubblica amministrazione, partecipato al 100%. In altri casi – Rai, Poste, Fs – il dibattito è tutto politico, mentre è un discorso di strategia generale quello che riguarda Leonardo (dove lo Stato non può scendere sotto il 30%) o il Poligrafico, che produce targhe e bugiardini dei farmaci. Per le Ferrovie resta l’opzione dello scorporo dei treni «Frecce» che potrebbero andare in Borsa al 30%: se ne riparlerà a luglio in vista del 2018.

Il resto delle operazioni sono spostamenti interni, ma no percorribili verso Cassa depositi e prestiti: da Enel (no dell’Antitrust per la contemporanea presenza di Terna) a Eni, che porta però grossi dividendi. Stesso discorso per Poste (nessun beneficio per il debito pubblico) e Stmicroelectronics, tutti discorsi abbandonati.

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