Liberate le liberalizzazioni!

Potrebbero rappresentare una leva per la ripartenza dell’economia tricolore, ma corporazioni e centri d’interesse fanno ostruzionismo. Senza contare che in passato…

Roma, 20 febbraio 2015. Al termine di un’attesissima riunione del Consiglio dei ministri presieduta da Matteo Renzi annunciano il varo del disegno di legge (ddl) sulla concorrenza, una nuova lenzuolata di liberalizzazioni che dovrebbe portare un po’ di competizione in molti settori strategici dell’economia italiana, dalle assicurazioni alla previdenza integrativa, dalla vendita dei farmaci ai servizi postali e notarili sino alla fornitura di gas ed energia. «È un tentativo di attaccare le rendite di posizione», dice Renzi presentando il provvedimento alla stampa. Da allora sono passati quasi due anni e sono cambiate molte cose. Ma il ddl concorrenza, a distanza di quasi 24 mesi da quel lontano febbraio 2015, è ancora lì: fermo e impantanato nelle secche di un lungo iter parlamentare che sembra non avere mai fine. Anzi, più che essere immobile, la lenzuolata di liberalizzazioni renziane è in realtà priva di molti pezzi che aveva in origine. Niente vendita libera dei farmaci di fascia C, niente abolizione degli atti notarili per le piccole compravendite di immobili non residenziali, niente nuove misure sui servizi di autotrasporto come quelli del popolarissimo Uber. Tante norme che dovevano entrare nel testo del disegno di legge sono state cancellate strada facendo o addirittura eliminate ancor prima di scrivere la versione finale del provvedimento, con grande gioia delle lobby che le hanno boicottate fin da subito. Segno evidente che in Italia, quando si parla di liberalizzazioni, c’è una miriade di corporazioni e di centri d’interesse pronti a fare ostruzionismo.

SECONDO UN REPORT DELL’ISTITUTO

BRUNO LEONI, UNA VENTINA DI STATI UE

HA MERCATI PIÙ INGESSATI DEL NOSTRO

QUALCHE PASSO IN AVANTIEppure, leggendo le ultime ricerche dell’Istituto Bruno Leoni (Ibl) di Torino, sembra che una leggera ventata liberalizzatrice stia spirando pian piano anche a Sud delle Alpi, nonostante le resistenze delle lobby. Ogni anno, infatti, l’Istituto pubblica l’Indice delle liberalizzazioni, un report in cui misura il grado di concorrenzialità di vari segmenti dell’industria e dei servizi in Italia, confrontandoli con la realtà di altre nazioni europee tramite l’assegnazione di un punteggio. Nell’ultima edizione di questo Indice, l’Italia si piazza al sesto posto nel Vecchio Continente per grado di concorrenzialità della sua economia, ottenendo un punteggio di 70 (su un massimo di 100) a pari merito con la Germania e alle spalle della Gran Bretagna (94), della Spagna (80), dell’Olanda (79), della Svezia (77) e della Repubblica Ceca (74). Stando alle rilevazione dell’Ibl, insomma, ci sono molti membri dell’Unione Europea, cioè almeno una ventina, che hanno un’economia assai più ingessata della nostra. Certo, non tutti i settori produttivi si muovono alla stessa maniera. L’Italia è senza dubbio all’avanguardia nella deregulation delle telecomunicazioni dove ottiene un punteggio altissimo nell’indice dell’Istituto Bruno Leoni, grazie a una forte competizione tra gli operatori, alla facilità per gli utenti di passare a un gestore all’altro e alla presenza di tariffe stracciate, soprattutto nella telefonia mobile. Una maggiore concorrenza rispetto agli anni scorsi c’è anche nel comparto dei servizi elettrici e del gas e anche nelle assicurazioni (con punteggi tra 72 e 85 su 100), in seguito alle liberalizzazioni approvate nel decennio scorso che soltanto adesso stanno dando i primi frutti. Poco aperti al mercato risultano essere invece la vendita dei carburanti (punteggio 44), il trasporto ferroviario (53), il comparto postale (63) e, udite udite, anche il mercato del lavoro (69).

IL GRANDE FLOP DELLA DEREGULATION ALL’ITALIANA

TOGLIERE LE BRIGLIE AL MERCATO

TRA SUCCESSI E FLOPMa quali sono i benefici portati in dote dalle liberalizzazioni realizzate in Italia negli anni scorsi? Mentre la maggioranza degli osservatori economici ed esponenti del mondo produttivo sembra concorde nel sostenere la necessità dell’apertura di molti mercati, non c’è molta identità di vedute sugli effetti provocati finora dalla deregulation. Per la Cgia (la confederazione degli artigiani) di Mestre, le liberalizzazioni all’italiana sono state un vero e proprio flop e non hanno fatto diminuire i prezzi o le tariffe, fatta eccezione per i medicinali e la telefonia. La colpa, secondo la Cgia, non è però del processo di deregulation in sé ma del modo con cui è stato attuato. Troppi settori sono, infatti, passati da un monopolio pubblico a un oligopolio privato che ha portato ai consumatori ben pochi vantaggi (si veda l’intervista a Paolo Zabeo, responsabile dell’Ufficio Studi della Cgia). Con questa tesi concorda anche Vincenzo Sanasi D’Arpe, partner dello studio Lexia Avvocati, professore di Diritto commerciale all’Università degli Studi G. Marconi di Roma, e tra i massimi esperti italiani di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi. «In passato e soprattutto negli anni ‘90 del secolo scorso», dice Sanasi d’Arpe, «abbiamo commesso l’errore di confondere le liberalizzazioni con le privatizzazioni, che non sono proprio la stessa cosa». Secondo l’avvocato, infatti, lo Stato italiano si è liberato con molta fretta di partecipazioni strategiche in settori che invece erano poco aperti al mercato e sono rimasti tali anche dopo la privatizzazione. E così, in questi stessi settori si sono create grandi concentrazioni che hanno portato ben pochi vantaggi all’economia nazionale. «Basti vedere cosa è avvenuto con la vendita di Autostrade», dice Sanasi d’Arpe, «o di Telecom Italia, un’azienda che alle soglie del terzo millennio era un’eccellenza nel mondo e che poi ha intrapreso purtroppo in un lungo declino, proprio per colpa di chi l’ha gestita dopo la privatizzazione».

SPESSO È STATO COMMESSO

L’ERRORE DI CONFONDERE LE LIBERALIZZAZIONI

CON LE PRIVATIZZAZIONI

DOVE MANCA LA CONCORRENZAAnche Sanasi d’Arpe, però, non è affatto contrario in linea di principio alle liberalizzazioni. Anzi, secondo lui ce ne vorrebbero ben altre, soprattutto in un settore: i servizi pubblici locali (per esempio nei trasporti), dove spesso si annidano sprechi, inefficienze e una evidente spartizione di poltrone a livello politico. I servizi locali, però, non sono certo l’unico ambito in cui l’economia italiana ha bisogno di aprirsi alla concorrenza. Nell’indice sulle liberalizzazioni dell’Ibl, infatti, il punteggio peggiore ottenuto dal nostro Paese per grado di concorrenzialità del mercato riguarda il comparto dei carburanti per autostrasporto. In questo caso, la colpa è da imputare a diversi fattori. Spesso, infatti, a impedire la liberalizzazione non è soltanto la mancanza di concorrenza tra gli operatori, ma anche la presenza di troppe regole burocratiche e di una pressione fiscale spropositata. È proprio il caso del settore dei carburanti dove le tasse incidono per oltre il 60% sul prezzo di vendita del prodotto e dove alcuni vincoli come l’obbligo per i distributori di tenere almeno tre diverse colonnine di rifornimento (per benzina, Gpl e diesel) ostacolano l’ingresso di nuovi player, per esempio i colossi della grande distribuzione organizzata. Se a queste lacune si aggiunge poi una diffusione ancora limitata delle pompe di benzina self service, ecco che il settore dei carburanti resta uno dei segmenti più ingessati dell’economia tricolore. Stesso discorso per i servizi di corrispondenza, che in Italia sono ancora abbastanza imbrigliati a causa della posizione dominante Poste Italiane. L’ex-monopolista di Stato, oggi parzialmente privatizzato, mantiene ancora alcuni privilegi come l’esclusiva nella consegna degli atti giudiziari, che dovrebbe essere abolita con il ddl concorrenza, sempre che riesca a giungere definitivamente in porto prima della fine della legislatura. La presenza di un’ex-monopolista di Stato rende poco aperto anche il mercato del trasporto ferroviario dove, nonostante la concorrenza dell’operatore privato Ntv, c’è una posizione dominante del gruppo Fs che gestisce sia i servizi di trasporto con Trenitalia, sia la rete con Rfi, manifestando un evidente conflitto d’interesse.

QUANDO DEVE INTERVENIRE LO STATOUn discorso a parte va fatto per il mercato del lavoro che, secondo l’Indice dell’Istituto Bruno Leoni, risulta ancora poco liberalizzato. Tuttavia, va detto che le ultime rilevazioni dell’Ibl si riferiscono al 2014 e non tengono ancora conto degli effetti del Jobs Act, la riforma del welfare del governo Renzi che ha rottamato l’articolo 18 e reso meno difficili i licenziamenti senza giusta causa. In attesa di vedere gli effetti di queste misure, però, c’è chi pone l’accento su un’altra grande riforma del mercato del lavoro italiano, avvenuta 20 anni fa.«Un esempio virtuoso di liberalizzazione è senza dubbio la legge promossa nel 1997 dall’allora ministro Tiziano Treu che ha introdotto il lavoro interinale nel nostro ordinamento», dice Rosario Rasizza, amministratore delegato di Openjobmetis, società attiva da oltre 16 anni nella somministrazione, ricerca, ricollocazione e formazione del personale. Rasizza ricorda il merito di quel provvedimento, visto il contributo dato oggi all’economia nazionale dalle agenzie di lavoro come la sua, che investono il 2% del proprio fatturato nella formazione professionale. «Il mio invito però è non fermarsi qui perché, se già nel 1997 la riforma Treu sembrava un azzardo, oggi dobbiamo guardare al futuro con coraggio e puntare a riformare settori rimasti bloccati». Tra le liberalizzazioni che sembrano aver funzionato meglio, almeno per il calo delle tariffe che hanno generato, c’è senza dubbio quella delle telecomunicazioni, il settore più concorrenziale nell’economia italiana. Ora, però, serve un passo in più. Oltre alla concorrenza tra gli operatori, infatti, occorre una buona dose di investimenti per sviluppare nella Penisola una rete a banda larga, che recuperi il gap con l’Europa accumulato dall’Italia nella velocità media di connessione. «Durante le prime liberalizzazioni del settore, a cavallo del millennio, molti operatori privati e a partecipazione pubblica hanno investito massicciamente sulla fibra ottica, spinti da una regolamentazione volta a favorire la competizione», dice Federico Protto, amministratore delegato di Retelit, gruppo di telecomunicazione quotato alla borsa di Milano e proprietario di una rete in fibra ottica di oltre 9.700 chilometri. Secondo Protto, però, adesso c’è la necessità di una netta separazione tra gli operatori che gestiscono i servizi di connettività alla rete e quelli che invece costruiscono e amministrano l’infrastruttura. Ecco allora che occorre l’intervento dello Stato, il quale dovrebbe realizzare una governance unica con regole comuni per garantire l’accesso alla rete a pari condizioni per chi gestisce il servizio, stanziando invece risorse pubbliche per portare la rete in fibra ottica nelle zone dove i privati non hanno convenienza a investire. «L’esecutivo italiano, prima dell’ultima crisi di governo, aveva imboccato decisamente questa strada, con risorse consistenti, superando decisamente gli approcci del passato», conclude Protto, «è quindi necessario non interrompere il percorso intrapreso».

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