Infrastrutture: chi vuole puntare sull’Italia?

Secondo l’EY Infrastructure Barometer, per i grandi investitori il nostro Paese è uno dei più appetibili a livello europeo, ma non mancano i problemi da risolvere perché questa potenzialità si trasformi in progetti concreti. Ecco quali sono

Per una volta, quello che in gergo si chiama sentiment, è positivo nei confronti dell’Italia. Non si sta parlando del mercato dei titoli di Stato, ma è comunque segno che c’è voglia di investire sul e nel Belpaese. Più precisamente, nel suo sistema infrastrutturale, che è un problema drammaticamente urgente. Questo interesse è certificato da un report di Ernst & Young, l’EY Infrastructure Barometer, frutto di una serie di interviste condotte tra gli executive di grandi aziende e corporation, fondi di investimento e di private equity. Numeri freddi, ma che aiutano a capire come pensino di orientarsi gli investitori. E così si scopre che il 44% del campione sentito affermava di essere propenso a investire sulle infrastrutture italiane nel corso dei successivi 12 mesi, prevalentemente sui segmenti più maturi come autostrade, ferrovie e fonti rinnovabili. Ma non mancano anche diverse ombre.

Per il 79% degli intervistati, il principale fattore di dissuasione è l’incertezza politica e regolatoria, senza dimenticare la farraginosità burocratica che impressiona negativamente il 68% dei rispondenti. Il momento, però, è favorevole. Governi e banche centrali hanno capito che ricapitalizzare le banche non basta, ma bisogna rianimare la domanda, cioè iniettare risorse nell’economia reale, e quello delle infrastrutture è uno dei settori con il moltiplicatore keynesiano più alto: per ogni euro investito, se ne generano 2,5 di Pil. Secondo le analisi di EY, tra pubblico e privato, nei prossimi cinque anni gli investimenti infrastrutturali saranno compresi tra i 150 e i 200 miliardi di euro. Basteranno per colmare il gap infrastrutturale? Non è detto, perché non è solo una questione di risorse. «È un falso mito che in Italia spendiamo poco in infrastrutture ed è la conclusione alla quale siamo arrivati dopo analisi abbastanza complesse», spiega Marco Daviddi, Strategy and Transaction Manager Partner di EY. Il riferimento è ai dati presentati dalla società in occasione del Capri Digital Summit dello scorso ottobre, secondo i quali – tra il 2014 e il 2019 – gli investimenti del settore pubblico in infrastrutture si sono mantenuti annualmente su qualcosa in più del 2% del Pil, non discostandosi troppo dalla media europea (2,9%).

A far la differenza è il contributo del settore privato, che è risultato essere inferiore di quasi il 4% rispetto a Paesi come Francia e Germania. A frenarlo, contribuirebbe la legislazione italiana. Daviddi, tra gli autori del report, inquadra meglio la questione. «L’Italia ha professionalità ed expertise di alto livello nella fase di ideazione e progettazione delle infrastrutture. Poi però c’è un collo di bottiglia che è rappresentato da tutte quelle che attività che servono nel passaggio dal progetto alla sua realizzazione. Su questo si dovrebbe intervenire da un punto di vista legislativo. Per esempio, un problema è l’estrema frammentazione delle stazioni appaltanti del nostro Paese, che sono oltre 30 mila. Non tutte dispongono delle figure professionali che servono per fare un lavoro del genere», ragiona il manager. Se queste figure mancano, è perché nella pubblica amministrazione non c’è stato ricambio generazionale. Il motivo è il blocco del turnover, causato da politiche di bilancio più che restrittive. «L’età media del personale della PA è ben oltre i 50 anni, mentre la percentuale di under 35 è pari al 2% a fronte di una media Ocse del 18%. Gli over 55 sono il 46% del totale contro la media Ocse del 24%. È vero che un personale più anziano è anche tendenzialmente più esperto, però è inevitabile che abbia anche una minor propensione all’innovazione, all’uso del digitale, all’integrazione di nuove tecnologie nei processi, elementi che possono portare a uno snellimento delle fasi procedurali e a una riduzione dei tempi».

L’austerity non ha avuto un impatto solo sulla PA. Se a monte, infatti, ha provocato una sistematica riduzione degli investimenti, ha anche avuto una serie di altri effetti a valle; per esempio la fuga dalla firma da parte degli amministratori pubblici, terrorizzati dall’idea che la Corte dei Conti possa chiamarli a rispondere dello sforamento di bilancio o, per aggirare quest’ultimo limite, l’utilizzo improprio della partnership pubblico-privato.

«Le autrici segnalano anche il rischio che spesso, più che utilizzare know how e capacità progettuali del settore privato, le pubbliche amministrazioni cerchino di ottenere dal privato l’anticipo delle spese di costruzione, con l’obiettivo di arginare i limiti posti dall’ordinamento all’indebitamento degli enti pubblici». Così scriveva Daniele Franco, l’attuale ministro dell’Economia, nella premessa di un poderoso volume di oltre 700 pagine dedicato dalla Banca d’Italia alla questione infrastrutture, pubblicato nel 2011. «Sia la spesa pubblica sia quella privata in ambito infrastrutturale si sono sempre concentrate sulle aree tradizionali e molto meno sulla componente a maggior contenuto tecnologico. Oggi, però, un tema come quello della rete unica come infrastruttura di connessione digitale sta diventando importante. In casi come questi, c’è un ampio spazio di intervento per i privati, che sono frenati da una legislazione sul Project Financing piuttosto complessa», spiega ancora Daviddi. Servirebbe, quindi, una revisione delle leggi che regolano le partnership pubblico-privato. La legge italiana, per esempio, non consente di proporre un’opera a un soggetto che non ne sia anche il costruttore e il gestore e questo è un ostacolo che altrove non esiste. Infine, spesso ci si è dimenticati che per costruire un’infrastruttura impattante prima bisogna costruire consenso attorno a essa, altrimenti diventano inevitabili fenomeni come il Not in My Backyard e Not in My Term of Office, che si sono tradotti in un rifiuto da parte delle popolazioni o dei politici locali di progetti che comportassero costi ambientali o reputazionali. Sbloccare i cantieri potrebbe contribuire a sbloccare il Paese ma, per una volta, non è questione di soldi.

Articolo pubblicato su Business People, marzo 2021

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