Il sorpasso del secolo

Così la Cina ha superato il Giappone e si avvicina agli Usa. I motivi? Uno stato accentrato e dirigista si è confrontato con un occidente che “dormiva”

Chissà come l’avranno presa i camionisti cinesi la notizia del sorpasso? Si saranno sentiti presi in giro, come se qualcuno avesse inventato un sfottò proprio nei loro confronti? Oppure avranno partecipato alla gioia, alle celebrazioni di un Paese di 1,3 miliardi di abitanti, molto nazionalista e molto fiero dei suoi successi? Chissà: le cronache non lo dicono. Fatto sta che le agenzie di tutto il mondo hanno dato l’annuncio dello storico sorpasso dell’economia cinese su quella giapponese proprio mentre oltre 10 mila camion, carichi per lo più di carbone, erano fermi su un’autostrada che collega la provincia di Hebei a Pechino. Una coda lunga 120 chilometri dalla Mongolia alla capitale; un ingorgo biblico, causato da lavori in corso, che le autorità sono riuscite a sbrogliare soltanto dopo una settimana. In quella situazione, il termine sorpasso era quantomeno fuori luogo. Poco dopo, quell’immane caos si è ripetuto: una coda anche più lunga della precedente ha occupato tutta la strada negando alle migliaia di camionisti non solo la possibilità di sorpassare, ma persino di muoversi, se non di pochi metri al giorno.

Eppure il sorpasso c’è stato. Ed eclatante. Nel trimestre aprile-giugno del 2010 la Cina ha superato il Giappone, diventando la seconda economia del mondo, alle spalle degli Stati Uniti. Tokyo mantiene (almeno per il momento) la posizione di numero due nel conteggio dei primi sei mesi dell’anno, ma nel secondo trimestre Pechino ha fatto un allungo che l’ha portata davanti ai cugini-rivali di sempre. Per la precisione, i dati sono questi. Fra aprile e giugno, secondo le statistiche ufficiali, la Cina ha registrato un prodotto interno lordo di 1.339 miliardi di dollari, contro uno di 1.288 miliardi del Giappone. Il Pil semestrale segnala 2.578 miliardi di dollari per il Giappone contro il 2.532 cinesi. Dunque ancora un lieve vantaggio per il Sol Levante. Il quale, però, sta rallentando il passo: si prevede infatti per l’intero 2010 una crescita molto modesta, appena lo 0,4%. Mentre la Cina farà ancora un balzo da vera tigre: il suo Pil, secondo le previsioni, salirà del 10%. Un record. E dunque: sorpasso.

«Il sorpasso della Cina sul Giappone», ha commentato Nicholas Lardy, economista al Peterson Institute for International Economics, «assume un significato particolarmente importante. Si tratta di una conferma di quanto è avvenuto per buona parte dell’ultimo decennio: la Cina sta eclissando il Giappone economicamente. Per chiunque in Estremo Oriente è la Cina il principale partner commerciale piuttosto che gli Stati Uniti e il Giappone». Bruce Kasman, capo economista di JP Morgan Chase Manhattan, ha aggiunto: «È un risultato storico, una pietra miliare. È impressionante come la Cina sia riuscita a mantenere tassi di crescita così elevati quando molti paesi si trovano ancora ad affrontare momenti molto duri». E la corsa non è finita, ormai l’obiettivo è quello per il primato assoluto. Ha scritto il Wall Street Journal: «La distanza che separa la Cina dagli Usa è ancora notevolissima: la prima ha un Pil annuo di 5 mila miliardi di dollari, i secondi di 15 mila. Il triplo. Però se il tasso di crescita del paese asiatico continua con questi ritmi tra una decina d’anni potremo assistere a un testa a testa». Dobbiamo prepararci a un secondo, eclatante sorpasso? Molti ci scommettono, soprattutto guardando alla spettacolare performance economica di Pechino: dieci anni fa la Cina era la settima economia del mondo; poi ha superato la Germania e nel 2007 ha conquistato il terzo posto, appunto alle spalle del Giappone. Per il 2010 gli analisti si attendono la Germania al quarto posto, seguita da Francia, Regno Unito e Italia.

Sulle ragioni di questo straordinario arricchimento si sono scritti milioni di pagine. Uno dei più attenti studiosi di quel Paese, Loretta Napoleoni, esperta in particolare degli ex stati comunisti sostiene che la Cina ha saputo sfruttare meglio di chiunque altro deregulation e delocalizzazione, che sono stati la filosofia base del capitalismo durante gli ultimi due decenni. «Per anni la Cina, uno dei pochi Paesi comunisti sopravvissuti al crollo del muro di Berlino – ha scritto – è stata oggetto della compassione dei Paesi ricchi perché apparteneva a quelle sfortunate nazioni che non potevano approfittare della deregulation. Mentre il ricco Occidente celebrava il suo neo-liberismo e spendeva soldi che non possedeva, i cinesi risparmiavano, copiavano i prodotti occidentali e rimpiazzavano quelle produzioni con le loro». I risultati? Alcune cifre per descriverli: nel ‘99 i primi esportatori del mondo erano, nell’ordine, Stati Uniti, Germania, Giappone, Francia, Regno Unito. Dieci anni dopo questa classifica è stravolta: la palma di numero uno dell’export è passata appunto alla Cina, seguita dalla Germania, dagli Usa, dal Giappone e dalla Francia.

Ma che cosa, concretamente, ha reso possibile il miracolo? Secondo il Fondo Monetario, non è corretto cercare le ragioni di questo incredibile boom solo nel basso costo della manodopera che ha favorito la delocalizzazione delle multinazionali. Bisogna focalizzare l’attenzione anche su un altro aspetto cui, normalmente, non viene data importanza. La Cina si è sempre tenuta lontana dalla deregulation finanziaria, da quelle magie dei mercati che per anni hanno guidato l’Occidente creando ricchezze inimmaginabili quanto fittizie che, alla fine, si sono trasformate i gigantesche bolle finanziare. Bolle esplose tre anni fa, mettendo le economie mondiali in una crisi dalla quale tuttora stentano a uscire. «Nel modello cinese – spiega ancora Napoleoni – la separazione fra Stato ed economia rispecchia i criteri classici dello Stato-nazione, dove la seconda è subordinata al primo e l’economia finanziaria rappresenta una frazione infinitesimale dell’economia reale. Nonostante l’apertura economica iniziata nel 1’8 da Deng Xiaoping lasci grande spazio all’iniziativa privata, lo Stato controlla che ciò avvenga nell’interesse della nazione e non di un gruppo di élite. E sebbene anche in Cina ci sia la corruzione e siano presenti tutti i mali delle nostre economie, lo Stato li combatte”.

Dunque uno Stato accentrato e autoritario che però riesce a guidare il Paese verso obiettivi ben precisi. Niente speculazione, ma ampliamento dell’apparato produttivo; in vestimenti in tecnologie, ricerca, formazione. Boom delle esportazioni che generano un afflusso crescente di valuta, dollari ed euro, che vanno ogni anno ad arricchire le riserve nazionali, diventate ormai una sorta di forziere di Zio Paperone. Tanto che oggi Pechino è il primo sottoscrittore del debito pubblico americano del quale possiede circa 4 mila miliardi di dollari. Insomma anche il presidente Usa, Barack Obama, quando prende le sue decisioni in molte materie, deve prima riflettere con attenzione per non irritare il suo principale creditore. Un risultato stupefacente per una nazione che fino a due decenni fa veniva iscritta senza esitazione al club dei Paesi sottosviluppati e che tuttora, malgrado la lunga marcia verso il benessere, conosce vaste zone di povertà.

Stupefacente, però, non sarebbe la parola giusta secondo Federico Rampini, uno dei giornalisti-saggisti italiani che meglio conoscono l’Impero di Mezzo, essendo stato per anni corrispondente da Pechino per la Repubblica e avendo scritto vari libri sull’argomento, a partire da Il secolo cinese (2005). Secondo Rampini la performance della Cina è normale, nel senso che si è ripresa quel posto, quel ruolo nella storia del mondo che ha avuto per secoli. Scrive il giornalista: «Quando 750 anni fa Marco Polo racconta la Cina all’Occidente, la sproporzione fra l’esperienza che vive e il mondo che si è lasciato alle spalle è inverosimile (…) La maggior parte dei centri urbani europei considerati grandi nel Duecento conta gli abitanti a poche decine di migliaia, la Cina ha 20 città sopra il mezzo milione. È stato stimato che all’epoca in cui il giovane mercante la visitò essa produceva da sola i due terzi di tutta la ricchezza mondiale». E questa supremazia economica durò per secoli. «Si può dire dunque che il secolo cinese in cui entriamo non è un’anomalia, anzi riporta le cose in ordine, rimette la Cina nel posto che le spetta: il centro del mondo – scrive ancora Rampini -. L’unica epoca tragicamente diversa della sua storia è il secolo delle umiliazioni apertosi nel 1840 con l’attacco dell’Inghilterra. (…) La Cina oggi non fa che chiudere quella parentesi e ridiventa la superpotenza che era quasi sempre stata prima di allora».

Qualche differenza con quella splendida tradizione tuttavia c’è. E non marginale. La Cina di oggi, quella che s’impone come campione vincente dell’economia, è una dittatura. È un regime che non ammette il minimo dissenso, fa un ricorso abituale alla pena di morte, non consente neppure (è solo un esempio) un utilizzo libero di Internet. Quando oltre 60 anni fa gli anglo-americani liberarono l’Europa dal nazismo, si imposero con la loro forza militare certo, ma esportarono anche il loro modello economico, sociale, politico. Il successo del libero mercato, del capitalismo coincise con il trionfo della democrazia sulle dittature. Ora il sistema economico che si rivela più efficace sta invece esattamente dalla parte opposta, coincide appunto con una dittatura. E questo, onestamente, inquieta.

Ci si può quindi domandare, e con qualche apprensione: dove porterà il mondo questo secolo cinese? Un esperto di scenari geopolitici, Carlo Pelanda, ha scritto sul Foglio che per varie ragioni (conflitti politici interni, fine del traino dell’export, diseguaglianze) la Cina imploderà entro un decennio. «Aiutare la Cina a non implodere vuol dire accettare la sua egemonia sul pianeta e con essa quella del capitalismo autoritario», ha annotato. «Il non farlo implica il rischio di una depressione globale. Ambedue soluzioni inaccettabili. Altre? Costruire qualcosa di più grande della Cina che possa condizionarla, per esempio un mercato delle democrazie che implica una convergenza per accedervi, con un nucleo euroamericano».

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