Il made in Italy che non ti aspetti

Non solo fashion, design ed enogastronomia. Nel mondo il nostro Paese è conosciuto e rispettato anche per l’industria meccanica ad altissimo tasso di innovazione. Non ci credete? Seguiteci in questo viaggio lungo la penisola dell’ultra-specializzazione

Southampton, 13 giugno 2013. Nel maggiore porto della Gran Bretagna meridionale, la duchessa di Cambridge, Kate Middleton, è vestita a festa con un abito maculato e un classico cappellino con piume, in “puro stile British”. L’occasione è di quelle importanti perché Kate, ancora in dolce attesa dell’erede al trono d’Inghilterra, è chiamata a fare da madrina alla nuova Royal Princess, una meganave da crociera con una stazza di 141 mila tonnellate, costata la bellezza di 600 milioni di euro. Nel celebrare i primati di questo nuovo gigante dei mari, i giornali britannici non mancano di sottolineare un particolare importante: la Royal Princess è una creatura del made in Italy, giacché arriva direttamente dagli stabilimenti del gruppo Fincantieri di Monfalcone (Go). Nella costruzione di navi da crociera, infatti, gli italiani sono ancora i numeri uno al mondo, nonostante la temibile concorrenza dei Paesi emergenti e la complicata situazione del gruppo Fincantieri, che oggi è alle prese con una difficile ristrutturazione industriale, aggravata dalla congiuntura economica sfavorevole. Non è solo nella navalmeccanica, però, che il nostro Paese mantiene una forza eccezionale, in barba a chi lo descrive ormai come una nazione relegata al ruolo di potenza economica di serie B. In realtà, l’Italia è un colosso dell’hi mech, cioè di quei settori dell’industria meccanica che si basano su un’elevata componente di innovazione tecnologica. Elicotteri, mega-yacht, macchine agricole e apparecchiature industriali per tagliare, levigare o impacchettare le merci: sono questi soltanto alcuni dei prodotti rigorosamente made in Italy che presidiano i mercati di quasi tutti e cinque i continenti, dando un contributo fondamentale all’economia della Penisola. In totale, ogni anno, le esportazioni italiane di macchinari e di apparecchi hanno un saldo positivo di oltre 44 miliardi di euro, una cifra più che doppia rispetto a quella che veniva registrata dalle statistiche alle soglie del 2000. Neppure la recessione economica dell’ultimo quinquennio è riuscita a scalfire le posizioni dell’hi mech nostrano. Anzi, nel 2011 il bilancio dell’export italiano in questo segmento di mercato è tornato al di sopra dei livelli del 2007-2008, gli anni bui della crisi internazionale. Nel complesso, il nostro Paese è tra i primi tre esportatori mondiali per ben 917 categorie di apparecchi e prodotti meccanici, che contribuiscono per circa 170 miliardi di dollari alla ricchezza nazionale e corrispondono a quasi il 10% del Pil (si vedano gli approfondimenti).

LA COMPETITIVITÀ CHE C’È. Sono dati che non lasciano spazio a dubbi e che Marco Fortis, docente di Economia industriale alla Cattolica di Milano e vicepresidente della Fondazione Edison, conosce come le sue tasche. È stata proprio la Fondazione Edison, infatti, a mettere più volte in evidenza queste cifre, per smentire molti luoghi comuni che abbondano nei report degli economisti, quando si tratta di analizzare la situazione del sistema produttivo italiano. «Sarebbe ora di smetterla di dire fesserie sulla mancanza di competitività dell’Italia », afferma senza mezzi termini Fortis, che bacchetta persino uno studio pubblicato di recente dalla Commissione europea (“Macroeconomic Imbalances Italy 2013”), in cui l’economia del nostro Paese viene bocciata senza appello. In particolare, i ricercatori incaricati dall’Ue sostengono che l’Italia ha adottato un modello di specializzazione industriale molto simile a quello di economie emergenti come la Cina, con cui non possiamo assolutamente competere, visto che abbiamo un costo del lavoro più alto. Inoltre, sempre secondo gli economisti della Commissione, la maggior parte del valore aggiunto italiano è generato in settori tradizionali e a bassa tecnologia. «È davvero difficile poter leggere in così poche righe di analisi, un numero tanto elevato di stupidaggini», commenta Fortis, secondo il quale la realtà dei fatti è assai diversa rispetto al quadro tracciato dai ricercatori di Bruxelles. Non si capisce perché, infatti, un mega-yacht o una nave da crociera prodotta a Monfalcone come la Royal Princess (che sembra un palazzo galleggiante), o un elicottero come quelli costruiti dall’italiana Agusta, oppure una macchina per imballaggi progettata su misura per i grandi stabilimenti delle multinazionali, debbano essere considerati dei prodotti molto meno innovativi di un banale telefonino o di un personal computer venduto sul mercato in milioni di pezzi e acquistato spesso anche dai consumatori che hanno ben poca dimestichezza con gli oggetti hi tech.

I DISTRETTI D’ECCELLENZA. Certo, gli italiani oggi non sono proprio dei campioni in molti comparti dell’alta tecnologia, a cominciare dall’elettronica. Ma non è detto che debbano diventarlo per forza, soprattutto se ciò significa rinunciare alla vocazione industriale che tradizionalmente caratterizza il nostro Paese, in molti distretti sparsi sul territorio della Penisola. Basta muoversi dalle Alpi alla Puglia, infatti, per rendersi conto dell’esistenza di diverse realtà imprenditoriali che tengono ancora alto l’onore italico nel mondo e che, assai di frequente, operano proprio nel comparto meccanico, piuttosto che in altri e più blasonati settori produttivi come la moda o il lusso. Nella zona di Brindisi, per esempio, c’è un importante distretto aerospaziale che dà lavoro a oltre 30 mila persone, esporta più di 3 miliardi di euro di fatturato (dati 2011) e ospita gli stabilimenti o gli uffici di grandi imprese di fama internazionale come Boeing, Avio o Alenia. Scorrendo verso Nord, lungo la Dorsale Adriatica, ci sono poi i distretti marchigiani come quello delle macchine per la lavorazione del legno, che si è sviluppato nel corso di decenni attorno all’industria del mobile della provincia di Pesaro. Per non parlare dell’Emilia Romagna, che della meccanica italiana è il cuore pulsante. Tra Parma, Modena e Rimini, passando per Bologna, chi cerca delle aziende meccaniche d’eccellenza non ha che l’imbarazzo della scelta. A parte il settore delle auto di lusso che ruota attorno ai nomi della Ferrari o della Maserati, uno dei fiori all’occhiello dell’economia nazionale è senza dubbio la produzione di macchinari industriali. È qui che spiccano i nomi di piccole e medie multinazionali del made in Italy come la bolognese Ima, leader mondiale nella progettazione e produzione di macchine automatiche per l’imballaggio e l’imbustamento di prodotti di largo consumo (farmaceutici, cosmetici, alimentari, tè e caffè). In questo particolare segmento di mercato, Ima ha un fatturato di oltre 700 milioni di euro all’anno, superiore a quello realizzato nello stesso settore dalla principale concorrente: il colosso tedesco Bosch. Un primato simile a quello di Ima è stato raggiunto anche dal gruppo Sacmi di Imola, che ha un giro d’affari di oltre 1,2 miliardi di euro ed è il numero uno al mondo nella produzione di macchine per la lavorazione della ceramica e per il packaging, cioè il confezionamento di cibi e bevande. Spostandosi poco più a nord, c’è invece la Arneg di Campo San Martino (in provincia di Padova), leader internazionale nella produzione di banchi frigo per supermercati, disegnati su misura in base alle specifiche esigenze dei maggiori gruppi della grande distribuzione.

I NOSTRI RECORD

ULTRA-SPECIALIZZAZIONI. Ma il viaggio nell’hi mech italiano non si ferma certamente qui. Partendo dal distretto delle valli bresciane, specializzato nella produzione di valvolame e stoviglie, si arriva sino a quello della rubinetteria del Piemonte orientale, dopo essere passati per l’area industriale di casale Monferrato, dove c’è una forte presenza di costruttori di frigoriferi industriali. Senza dimenticare, poi, un dato che forse molti osservatori non conoscono: l’Italia è il primo produttore mondiale di tubi, valvole e manufatti per il trasporto del petrolio e del gas, con una quota del mercato globale pari al 15% e un giro d’affari complessivo attorno ai 16 miliardi di euro, realizzato da circa 200 aziende che si concentrano tra il nord della Lombardia e la Bassa Padana. Secondo Fortis, dunque, «è assurdo considerare poco competitivo un Paese che ha un apparato industriale siffatto, composto da aziende, imprenditori, ingegneri e ricercatori che hanno saputo fare dell’innovazione il pane quotidiano ». E allora, per il vicepresidente della Fondazione Edison, «meglio sarebbe mettere da parte la “retorica del declino” propagandata da alcuni economisti e concentrasi sui veri problemi dell’Italia, che ne impediscono la crescita economica: l’eccesso di burocrazia, una scarsa liberalizzazione dei servizi, il costo elevato dell’energia, la pressione troppo alta delle tasse sui redditi d’impresa e su quelli da lavoro, oggi martoriati dal cuneo fiscale (cioè dalla forte incidenza di imposte e contributi, che fa lievitare il costo della manodopera lordo, a carico delle imprese, e comprime anche i salari netti, percepiti nella busta paga dai dipendenti) ». I fattori che impediscono al nostro Paese di ripartire, insomma, vanno tutti ricercati all’interno dei confini nazionali, ma non certamente nel ricco e variegato sistema industriale della Penisola, dove le aziende esportatrici, soprattutto nel comparto della meccanica, sono state in grado di rinnovarsi e hanno fatto il proprio dovere fino in fondo.

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