Export: per l’Italia non può bastare

È l’unico motore di crescita sul quale il nostro Paese possa puntare, anche a causa della disciplina economica Ue. Ma tra Brexit, protezionismo Usa e rallentamento della Cina le incognite da affrontare sono sempre di più…

«Italia fuori dalla recessione». Così titolava in pri­ma pagina il Corriere della Sera nella sua edizione del primo maggio, riferendosi alle ultime rilevazio­ni dell’Istat che annunciavano una debole crescita dell’economia italiana nel primo trimestre dell’an­no, pari a un +0,2%. Per molti questa è stata una sorpresa, so­prattutto per i giornalisti economici, che da mesi paventavano sciagure. Molti di loro, purtroppo, hanno studiato su libri usa­ti ai quali, per qualche misteriosa ragione, i vecchi proprietari devono aver strappato le pagine su John Maynard Keynes e per questo rimangono stupiti davanti all’ovvio: a un minimo stimo­lo dell’economia da parte del governo, quel rapporto deficit-Pil portato al 2,04%, è corrisposto una impercettibile ripresa econo­mica. Che non è una rondine e non fa primavera.

Infatti, i consumi non aumentano e neanche i 60 mila posti di la­voro creati a marzo, quasi tutti a tempo indeterminato, né i 47 mila autonomi in più registrati nei primi tre mesi dell’anno, han­no migliorato le aspettative dei consumatori. Lo stesso articolo del Corriere menzionava «l’enigma più profondo», cioè il fatto che la crescita fosse stata trainata dall’ex­port più che dai consumi interni. L’Istat l’aveva già messo nero su bianco nel Rap­porto sulla competitività dei fattori setto­ri produttivi, pubblicato a fine marzo, in cui scriveva che «la dinamica del Pil è sta­ta frenata dalla significativa decelerazione delle componenti interne di domanda. Il contributo alla crescita dei consumi fina­li nazionali si è dimezzato, passando da 0,9 punti percentuali nel 2017 a 0,4 pun­ti percentuali nel 2018: dopo aver mante­nuto una moderata dinamica positiva nel primo trimestre (+0,2%), hanno sostanzialmente ristagnato». Però non c’è nessun enigma da sciogliere: l’export è l’unico motore di crescita sul quale l’Italia possa puntare ed è una scelta obbliga­ta, nonostante potrebbe contare su quello che è, per dimensioni economiche, il nono mercato interno al mondo.

Giocare sull’ex­port comporta, però, una serie di rischi: innanzitutto espone a shock esterni, che possono essere la Brexit, il ritorno al protezio­nismo degli Usa, un aumento del costo delle materie prime o an­che solo una contrazione della domanda da parte di un player come la Cina. Ma il vero problema è che i consumi interni – cioè spesa pubblica e acquisti delle famiglie – valgono da soli poco meno dell’80% del Pil. In due parole, un loro calo non può esse­re compensato da un aumento delle esportazioni, che non sono un motore altrettanto potente. Ma la disciplina economica che si è data l’Unione non consente manovre di stimolo della doman­da aggregata e obbliga i Paesi a puntare sulla deflazione salariale. In termini molto semplici, per rianimare un’economia stagnante e a rischio deflazione, non potendo utilizzare risorse interne (spe­sa in deficit), devono cercarle fuori, con l’export. Il dramma è che per guadagnare competitività sui mercati esteri, non possono riallineare il cambio (cioè svalutare), ma devono tagliare i costi di produzione, cioè i salari, con ovvi effetti recessivi sui consumi, su­gli investimenti delle aziende e sul Pil in generale, cosa che causa un aggravamento degli squilibri dei conti pubblici.

Ora che anche l’economia tedesca arranca (guardare il suo Ma­nufacturing Pmi di marzo per rendersene conto, ndr), in mol­ti cominciano ad accorgersi di queste incongruenze e a chiede­re una riforma delle regole dell’Eurozona. A una lunga lista di economisti di prima grandezza, alcuni dei quali premi Nobel, si è aggiunto anche Paul de Growe, tra gli studiosi più ascoltati a Bruxelles, che lo ha detto senza mezzi termini a Finanz und Wirtshaft, in un’intervista il cui titolo era: «Dobbiamo cambiare il sistema: la crisi italiana lo rende evidente».

Ecco perché l’Italia, che suo malgrado è diventata il case study che riassume il fallimento delle ricette economiche europee, non può che votarsi alle esportazioni. Che vanno bene, anche se pesano su di esse una serie di limiti, strutturali e non solo, e di incognite (vedi intervista). Stando alle ultime elaborazioni del Ministero dello Sviluppo economico su dati Istat, pubblica­te il 29 aprile, la quota italiana dell’export globale è passata dal 3,4% del 2008, quando l’Italia era la settima potenza esportatrice al mondo, al 2,8% del 2018, quando si è ritrovata nona, superata da Gran Bretagna (ora quinta) e India.

Un’altra brutta notizia riguarda i mercati di destinazione: tra i primi dieci, ci sono ben sette Paesi Ue, cinque dei quali par­te dell’Eurozona, un’area allergica ai boom economici. Inoltre, i due principali “clienti” sono Germania e Francia, le cui diffi­coltà economiche si riverberano sull’export dell’Italia, andan­do ad aggravare una crisi che a sua volta, attraverso una ridu­zione dell’import italiano, ha effetti sul Pil dei due vicini, in una infausta catena di Sant’Antonio. Per questo dovrebbe preoccu­pare che la decelerazione dell’export sia più marcata nei con­fronti dei Paesi extra Ue che verso i partner europei: la cresci­ta delle esportazioni nei primi mercati è passata dal +8,2% del 2017 al +1,7 del 2018, mentre nei secondi si è registrata una ri­duzione dal +7,2% di due anni fa al +4,1 dell’anno scorso. Né lascia tranquilli il fatto che a far crescere l’export sia stato non un aumento dei volumi ma solo dei prezzi.

Tutti questi elementi dovrebbero far riflettere. Le esportazioni non sono una panacea e non possono sostituire una domanda aggregata in sofferenza. Per uscire dalla crisi, bisognerebbe ridiscutere un paradigma economico non proprio infallibile. Ma non è verosimile. Troppe carriere accademiche, politiche e giornali­stiche, sono state costruite su determinati postulati. E, infatti, i giornali continuano a invocare tagli alla spesa e riforme struttura­li, stupendosi poi che i consumi interni siano stagnanti ovunque, che il ceto medio sia in sofferenza e scambiando dei gilet gialli per delle camice brune ­

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