Dal capitalismo all’economia cooperativa

Il momento storico che stiamo vivendo, nelle sue contraddizioni e nei suoi risvolti problematici, presuppone nuovi paradigmi di sviluppo economico, e non solo. In mancanza di leader politici capaci di inseguire un’utopia, che sia delle imprese il compito di costruire speranze sociali?

«I tempi sono molto duri», dichiarò, già nel 2008, il presidente Obama alla Nazione. E aggiunse: «Dobbiamo anzitutto essere onesti con noi stessi, perché ci sono tempi in cui basta ridipingere la casa e tempi in cui occorre ricostruirne le fondamenta». Nuovi paradigmi, quindi, nuovi modelli. Ma quali? La questione dominante riguarda la sostenibilità della crescita, nella misura in cui ci si auspica un mutamento radicale nel rapporto tra economia e politica, sul piano dei rapporti internazionali, dell’allocazione delle risorse e della finanza. Così la domanda non sembra più essere quanto durerà la crisi, ma se e come, dopo la crisi, cambierà il nostro sistema economico. Si chiude l’epoca “dei torbidi” (Toynbee), durata 40 anni, incentrata su capitalismo finanziario selvaggio, globalizzazione e squilibrio tra politica ed economia. Ma cosa si apre? Molti si chiedono se sia davvero la ricerca della crescita ad ogni costo la panacea per i tutti malanni del mondo. Oggi è la validità stessa del Pil ad essere messa in discussione. Secondo alcuni è un indicatore ormai del tutto obsoleto, secondo tutti gli altri deve essere (almeno) integrato (leggi qui). Nella comunità economica c’è, invece, un enorme fermento e oggi più che mai si è alla ricerca di nuovi paradigmi. Dalla bioeconomia di Georgescu-Roegen alla Blue Economy di Gunter Pauli, fino alla proposta di “prosperità senza crescita” di Tim Jackson. In Italia da anni è attivo il Movimento della decrescita felice (Mdf) di Maurizio Pallante (decrescitafelice.it), che fa capo a quello dell’economista francese Serge Latouche (decrescita.it). Fino ad arrivare al sociologo italiano Giampaolo Fabris che, prima di scomparire nel 2010, ha proposto una terza via, quella di una società Post-crescita, che vede come protagonista l’individuo “consum-attore”. Abbiamo chiesto a due economisti – Luigino Bruni, professore associato di Economia politica all’Università Bicocca di Milano e Carlo Filippini, professore ordinario di Economia politica all’Università Bocconi – e a un sociologo – Gianfranco Siri, collaboratore di Giampaolo Fabris e docente di psicologia dei consumi all’Università San Raffaele – di aiutarci a decifrare questa nuova età del cambiamento.

Rifkin: “La crisi finirà quando cambieremo l’economia”

VERSO UNA “DECRESCITA SERENA”?Dalla prima rivoluzione industriale si è sempre puntato alla crescita. Sempre e comunque. Fino a quando? Serge Latouche propone una ricetta basata su otto “erre”: rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare e riciclare. La decrescita non è la riduzione quantitativa della produzione. È piuttosto rifiuto razionale di ciò che non serve. Nel nuovo paradigma culturale, l’indicatore della ricchezza non è più il reddito monetario, ma la disponibilità di beni necessari a soddisfare i bisogni delle persone. Un tema fondamentale, quindi, è quello dello spreco. Una casa mal costruita consuma molto di più di un’altra edificata evitando dispersioni di energia. Il paradosso è che un edificio mal coibentato (ovvero, isolato a livello termico) fa crescere il Pil più di un edificio coibentato bene, perché consuma maggiori quantità della “merce energia”.«Queste teorie non sono nuove», afferma dalla Bocconi il professor Carlo Filippini, «le abbiamo già sentite negli anni Settanta con I costi della crescita e il movimento Crescita zero. Se le collochi nella giusta prospettiva, colpiscono meno». Ma se tutto è già stato visto, aveva ragione o no il presidente Obama nel dire che dobbiamo ricostruire le fondamenta? «Per rispondere, bisogna fare due distinzioni», continua Filippini, «anzitutto sui fini. Oggi una fascia non piccola della popolazione mondiale persegue scopi diversi rispetto a quelli della crescita tout court. Dovremmo aggiungere anche un’altra variabile importante, oggi trascurata, che è la distribuzione del reddito, a cui in questa crisi siamo molto sensibili».Di sicuro, per Filippini, una cosa è certa. «Una crescita infinita in un mondo finito è un paradosso, ma si può dire che possiamo crescere, e far crescere anche il Pil, senza consumare il mondo. E infatti nei Paesi sviluppati si consumano sempre meno merci, pur avendo un Pil in crescita. Aumentare i consumi non significa, infatti, solo aumentare la quantità di merci». Il modello di sviluppo ancora più credibile, insomma, è ancora quello che abbiamo? «Con le dovute integrazioni», aggiunge Filippini, «dopo il capitale fisico (macchinari e infrastrutture) si è introdotto e sottolineato quello umano (istruzione e ricerca) e ora dobbiamo lavorare su quello sociale (istituzioni, relazioni interpersonali, fiducia). Si è riscontrato che in Paesi con grado di fiducia elevato, nelle istituzioni e negli altri, la crescita è più forte e veloce».

CRESCITA SÌ, MA DEL SOCIALE SULL’ECONOMICO«In questa crisi rischiamo di buttar via il bambino con l’acqua sporca», sostiene Luigino Bruni. E il suo libro Le nuove virtù del mercato, lo dimostra ripartendo da quegli aspetti positivi dell’economia di mercato che oggi sembrano travolti nella tempesta finanziaria. «Il mercato ha innumerevoli aspetti positivi, come le Pmi o il made in Italy. Dobbiamo tornare a una visione positiva degli scambi economici, anche in prospettiva storica. La storia ci insegna che quando non c’è mercato, s’instaurano rapporti servo-padrone». E se decrescita deve essere, per Bruni deve riguardare piuttosto un calo dell’economico e un aumento della società civile. «Oggi l’insostenibilità, oltre che ambientale, è a livello relazionale. Dobbiamo far “decrescere” la zona di influenza del mercato e liberare più ambiti dove vivere rapporti non mercantili». Per fare questo, dice Bruni, si deve fare una sana “elaborazione del lutto”. «Da una crisi, si sa, si può uscire migliori o peggiori. Oggi abbiamo bisogno di profonde riflessioni sui nostri modelli di sviluppo. La recessione che viviamo è sì economica, ma parte da una depressione di tipo psichico-collettivo».

IL “CONSUM-ATTORE” E LA POST-CRESCITAGiampaolo Fabris, nel suo ultimo volume del 2010, La società post-crescita, scrive che non è più tempo di dare risposte vecchie a nuovi scenari. Continuare a puntare sui consumi, a chiamare “sacrifici” le “opportunità”, non basta più. «Il benessere», afferma Fabris, «non si misura più con la quantità di consumi e ben-avere non è più sinonimo di ben-essere». «Ma non era d’accordo con la decrescita», racconta Gianfranco Siri, «la percepiva come un adeguamento al peggio. La post-crescita teorizzata da Fabris mette in primo piano il consumatore, la relazione e la partecipazione. È una crescita che coniuga la compatibilità ambientale con quella psicologica e sociale». «La postmodernità», continua Siri, «rappresenta il passaggio dalla centralità della produzione alla centralità del consumo». Il consumatore si riscatta dal tradizionale confinamento nel privato, dall’esasperato individualismo, per trasformarsi in soggetto di critica. E, grazie al Web, diventa consum-attore. «Oggi», continua Siri, «in assenza di una classe politica che sappia proporci un sogno, un’utopia, sono le imprese a farsi anche attori sociali, capaci di costruire speranza e significati e non solo prodotto».

E INTANTO GLI EMERGENTI… CRESCONOMa come si concilia tutto ciò con il Pil in impennata dei Brics? È di fine gennaio la copertina dell’Economist The Rise of State Capitalism, che sottolineava i problemi legati alla diffusione del modello di capitalismo statale cinese. «È questa la vera minaccia al capitalismo di stampo americano», riprende Filippini. «Vediamo che il nostro sistema di proprietà privata e di concorrenza, con limitato intervento pubblico, genera uno sviluppo molto inferiore a quello dei Paesi emergenti; allora qualcosa non funziona. Inoltre una componente importante del nostro sistema, la finanza, è percepita come la causa di tutto». Nello State Capitalism i controlli sono infinitamente maggiori e, soprattutto nel modello asiatico, l’idea di base è che ci sia sinergia tra Stato e mercato. «Forse sarebbe opportuno», aggiunge Filippini, «riconsiderare questo modello, molto più sociale o “gruppista”, anche per l’evoluzione dell’Occidente troppo individualista. Cosa che sembra essere la linea portata avanti dal premier inglese David Cameron, una sinergia fra cooperative, gruppi sociali, enti privati, imprese e Stato. Un’economia cooperativa che dà maggiore importanza al gruppo rispetto all’individuo».

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