Ecco come (e perché) la Cina si trasformerà in una potenza tecnologica

Pechino si sta ormai lasciando alle spalle lavoro a basso costo e contraffazione per diventare una potenza tecnologica. Merito del piano Made in China 2025, che pone precisi obiettivi da raggiungere in ben dieci settori strategici. Ma cosa significa questo per il Vecchio Continente? E, soprattutto, per il nostro Paese?

L’epoca in cui il suo Pil registrava annual­mente una crescita a due cifre sarà an­che finita, ma questo non significa che la Cina abbia intenzione di lasciare la cor­sia di sorpasso. A Pechino hanno proget­ti ambiziosi. Il piano decennale Made in China 2025, presentato nel 2015 dal pre­mier Li Keqiang, è solo il primo di tre ca­pitoli di una titanica ristrutturazione eco­nomica che, entro il 2049, anno in cui la Repubblica Popolare festeggerà il suo primo secolo, porterà la Cina a diventare una potenza tecnologica.

Cina: addio merce di scarso valore e manodopera economica

Se fino a qual­che anno fa inondava i mercati mondia­li di merce di scarso valore prodotta in quantità industriali grazie a un’abbon­dante manodopera economica, impor­tando quella a più alto valore aggiunto, ora il gioco è cambiato e cambierà anco­ra. È un passaggio inevitabile. La crescita economica degli ultimi decenni ha com­portato un aumento dei salari, erodendo progressivamente il vantaggio che Pechi­no aveva nelle industrie labor intensive. Inoltre, una Paese con ambizioni globa­li deve poter contare anche sul soft po­wer, cioè deve proiettare un’immagine di potenza anche senza dover tirar fuo­ri le portaerei, ma finché alla produzione cinese fossero state associate cianfrusa­glie e impresentabili contraffazioni, il co­losso asiatico sarebbe stato una potenza zoppa. E se c’è una cosa che sanno fare a Zhongnanhai, il cuore del potere cinese, è pianificare.

Il governo ha fissato degli obiettivi da rag­giungere entro i prossimi sei anni in dieci settori strategici (vedi infografica qui sotto), scelti non a caso, come spiega a Business Pe­ople Giorgio Prodi, economista dell’U­niversità di Ferrara esperto di sistemi in­dustriali dei Paesi in via di sviluppo e della Cina in particolare: «L’idea è quella di diventare forti in settori giovani, dove è inferiore il ritardo rispetto ai leader glo­bali. Per esempio, nell’elenco non figura l’automotive tradizionale, che pure è un settore dove la Cina ha spinto molto, ma in cui non è riuscita a recuperare il gap con tedeschi e americani. C’è invece l’au­to elettrica, dove tutti i player partono più o meno dallo stesso livello. In più trovia­mo qualche settore, come quello delle macchine agricole, che è fondamentale in un Paese con oltre un miliardo di abi­tanti e poche terre arabili».

Il nuovo volto della Cina e le implicazioni per l’economia italiana

Per le aziende italiane questo significa che ora hanno un competitor in più in tutta quella produzione ad alto valore aggiunto. Sulle modalità con cui Pechi­no sta scalando la catena del valore riflet­te Fabio Corno, professore di Economia aziendale all’Università Bicocca di Mila­no, dove ha fondato e diretto il Master in International Business Development: «Lo fa sia sviluppando un proprio know how interno, sia attraverso acquisizioni. Dopotutto, stiamo parlando di una realtà che ha disponibilità monetarie quasi illi­mitate ed è dotata di grandi competenze anche in ambito finanziario». E in Italia lo shopping è particolarmente intenso. «Le acquisizioni che i gruppi cinesi hanno fatto da noi sono estremamente rilevan­ti. Anche in questi ultimi mesi, segnati da un calo dell’interesse da parte degli inve­stitori stranieri, i cinesi hanno continuato a comprare, anche a prezzi fuori merca­to che altri, fondi d’investimento in testa, non sono disponibili a pagare», racconta ancora Corno.

Pechino è entrata da tempo nel cuore dell’economia italiana con investimen­ti, di colossi pubblici e privati, nei pezzi pregiati del sistema industriale locale, da Fca a Pirelli, dove Chem China ha la quo­ta di controllo, da Snam e Terna, cui Chi­na State Grid è arrivata comprando una quota di Cdp Reti, a Generali, da Tele­com Italia ad Ansaldo Energia passando per Ferretti e Krizia. Il marchio di lavatrici Candy è stato appena acquisito da Haier, ma negli ultimi mesi sono diventati cine­si anche Wind Tre e Moto Morini e a bre­ve potrebbero diventarlo anche Alfa Ro­meo e Maserati. I nomi, però, sono molti di più. Ad aprile dello scorso anno con­tava 300 gruppi di investitori cinesi per un totale di oltre 641 imprese partecipa­te (rapporto annuale Cina 2018 del Cen­tro Studi per l’Impresa della Fondazione Italia Cina – CeSIF). Il trend, secondo Blo­omberg, sta cambiando: nel 2018, i con­tratti di acquisizione a opera di gruppi ci­nesi sono stati un terzo rispetto al totale dell’anno precedente.

La concorrenza cinese è costata agli Usa 2,4 milioni di posti di lavoro

C’è poi quella fascia di prodotti e servi­zi ipertecnologici in cui non ha più senso chiedersi quali siano gli effetti dell’avan­zata cinese sull’Italia, ma bisogna ragio­nare abbracciando una prospettiva più ampia. Si parla di internet, telecomuni­cazioni, telefonia, settori che hanno una rilevanza geopolitica prima ancora che economica. Per esempio, non è irrilevan­te che la quota di esportazioni cinesi ai Paesi extra Ocse sia passata dal 43 al 48%. Secondo lo US National Science Board, quella nel mercato hi-end (device tecno­logici) negli ultimi dieci anni è triplica­ta, arrivando al 32% del totale. Conside­razioni geopolitiche a parte, c’è da dire che questa crescita non è stata indolore per nessuno. Lo US National Bureau for Economic Research stima, per esem­pio, che la concorrenza cinese sia costa­ta agli Usa tra i due e i 2,4 milioni di po­sti di lavoro.

«L’Europa ha un competitor in più, da non prendere sottogamba. I prodotti Huawei sono di altissimo livello tecnologico, sia telefonini che reti, in particolare queste ultime. Ma pensiamo ai settori che sono innovativi come l’A.I. o quelli che han­no a che fare con i Big Data. La Cina ha un mercato domestico captive di 1,4 mi­liardi di persone, tra l’altro iperconnesso, ipercontrollato, e quindi ha un quantita­tivo di dati su cui lavorare che le danno un vantaggio strepitoso rispetto al resto del mondo. Ormai prodotti come We­Chat hanno un livello di sofisticazione e di servizio che è migliore del suo com­petitor, che è WhatsApp», riflette Giorgio Prodi. E infatti la Cina oggi vale da sola il 40% delle transazioni online, vanta un’e­conomia da mobile 11 volte più grande di quella statunitense e ospita un ter­zo dei cosiddetti unicorni. Che Pechino stia dando la scalata alla catena del valore non è un’ipotesi ma una certezza. Quel­lo che non si sa, invece, è quali saranno le conseguenze di lungo periodo per l’Ita­lia, per l’Europa e per il mondo.

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