C’è Iva e Iva

Anche dall’applicazione dell’imposta sul valore aggiunto si capisce qual è la strategia di crescita di un Paese. Quella dell’Italia non è certamente tra le più brillanti d’Europa. E dalle best practice di molti degli altri membri dell’unione c’è solo da imparare

Padova, 12 giugno 2013. In un’affollata assemblea di Confcommercio, il ministro dello Sviluppo economico, Flavio Zanonato, viene sommerso da una bordata di fischi ed è costretto a interrompere più volte il suo discorso. Al pubblico che siede in platea, infatti, Zanonato ha appena dato una bruttissima notizia: il previsto aumento dell’Iva dal 21 al 22%, messo in agenda per il 2013 dai governi di Monti e Berlusconi, probabilmente sarà inevitabile. Il premier Enrico Letta e i suoi ministri vorrebbero dribblarlo volentieri ma, nell’attuale situazione dei conti pubblici, il rialzo dell’imposta sul valore aggiunto (che colpisce i consumi di tutti gli italiani) per Zanonato sembra non avere alternative. Apriti cielo. Dopo numerose proteste delle associazioni di categoria e di fronte al rischio di una crisi politica della maggioranza che sostiene l’esecutivo, il presidente del Consiglio è costretto a fare marcia indietro e a prendere tempo. Il temuto aumento dell’Iva, previsto inizialmente per l’1 luglio di quest’anno, viene subito spostato in avanti all’1 ottobre, nella speranza di poterlo sostituire, nel frattempo, con altre entrate o con dei risparmi di spesa per un totale di due miliardi di euro.

COS’È L’IVA E COME SI APPLICA

L’Iva (imposta sul valore aggiunto) è un prelievo fiscale sui consumi, applicato in 63 paesi. L’imposta grava sul valore aggiunto di ogni fase della produzione e dello scambio di beni e servizi. Un produttore che acquista determinate materie prime e le trasforma in prodotti finiti paga l’imposta sulla differenza tra il prezzo a cui vende i beni e quello al quale ha acquistato le risorse necessarie per produrlo.

Ogni volta che vengono commercializzati sul mercato, i beni e i servizi sono venduti a un prezzo comprensivo di Iva. Esempio: il valore di un bene che costa 121 euro è composto da un prezzo netto di 100 euro più 21 euro (21%) di imposta. Il prelievo viene dunque pagato di fatto dall’acquirente finale anche se è compito del venditore versarlo all’erario, cioè allo stato. Poiché la tassazione colpisce soltanto il valore aggiunto del bene o del servizio, il venditore che versa l’imposta ha diritto a sottrarre dall’importo dovuto l’Iva pagata sugli acquisti, cioè sui beni, i servizi e le materie prime che ha comprato per creare o per vendere il prodotto finale.

LE ALIQUOTE PER LE DIVERSE CATEGORIE DI BENI

QUARANT’ANNI DI SALASSO L’impegno di Letta nel far quadrare i conti, però, non cancella un problema che resta irrisolto ormai da molti anni. Anche senza l’incremento dell’aliquota al 22%, infatti, l’Iva italiana rimane una delle più alte di Eurolandia, superiore a quella della Francia e della Germania e inferiore soltanto a quella dei Paesi con i conti pubblici particolarmente scassati, come la Grecia e il Portogallo.

Inoltre, come ha fatto notare la Cgia (la confederazione degli artigiani di Mestre), l’Italia è anche il Paese europeo in cui l’imposta sui consumi è cresciuta maggiormente negli ultimi 40 anni. In totale, il rincaro complessivo è stato di nove punti percentuali in 40 anni, contro gli otto punti della Germania, i cinque dell’Olanda, i quattro dell’Austria e i tre punti di aumento del Belgio. Per non parlare della Francia che, unica eccezione in Europa, nell’arco di otto lustri ha addirittura deciso di abbassare l’imposta, seppur di un risicato 0,4%. Per questo, secondo il segretario della Cgia, Giuseppe Bortolussi, siamo ormai arrivati a un punto limite. Invece di aumentare, l’Iva dovrebbe piuttosto diminuire, in modo da far ripartire i consumi. «Quella che stiamo vivendo è una crisi economica della domanda e non dell’offerta», ricorda il segretario della Cgia, «perché la gente non ha più soldi da spendere e non ce la fa ad arrivare alla fine del mese». Con questo scenario di fondo, un aumento dell’imposta sul valore aggiunto è dunque una vera e propria sciagura, poiché costa a ogni famiglia una media di 90-100 euro in più all’anno sul conto della spesa. Di per sé, non sarebbe una cifra enorme ma, con i consumi già ridotti all’osso, l’aggravio rischia di essere un colpo mortale per l’economia.

GLI ITALIANI CORRISPONDONO TANTO, MA EVADONO PIÙ DEGLI ALTRI

Aliquote più alte e gettito inferiore. È il paradosso che si verifica ogni anno in Italia quando lo Stato mette le mani nelle tasche dei cittadini applicando l’Iva. Le entrate del governo di Roma derivanti dall’imposta sul valore aggiunto sono infatti pari a poco più del 6% del Pil, per un totale di circa 115 miliardi di euro. Si tratta di una cifra inferiore a quella che si registra in Germania, Gran Bretagna e Francia, dove il gettito è attorno a circa il 7% del prodotto interno lordo. Questa differenza, a detta degli esperti fiscali, è dovuta in buona parte alla presenza del nostro Paese di vaste sacche di evasione dell’imposta, che sopravvivono grazie alle fatturazioni in nero. La prova arriva confrontando la realtà italiana con quella della Francia, che ha un’Iva più bassa della nostra, con un’aliquota massima del 19,6% e prelievi ridotti tra il 2 e il 7% circa, sui generi di prima necessita. Nonostante questo divario nel livello di tassazione, il governo di Parigi incassa con l’Iva più di quello di Roma. Il dato è stato messo in evidenza anche dagli esperti delle Agenzia delle Entrate, in uno studio del 2007 che mette a confronto l’imposta sul valore aggiunto italiana con quella transalpina. La maggiore presenza di piccole imprese nella Penisola, secondo gli analisti dell’Agenzia, rendono più probabile la presenza di compensi in nero che sfuggono alla tagliola dell’Iva. Per migliorare la tassazione sui consumi, dunque, sarebbe bene che il nostro Paese facesse una lotta più efficace all’evasione, alleggerendo invece il peso del fisco sulle imprese e sui cittadini che pagano tutte le imposte (Iva compresa) fino all’ultimo centesimo.

LA LEZIONE D’OLTREMANICANon va dimenticato, poi, che i sostenitori dell’aumento dell’Iva hanno ben pochi argomenti dalla loro parte. Per rendersene conto, basta analizzare ciò che è accaduto in Gran Bretagna negli anni scorsi, subito dopo la crisi economica internazionale. Per stimolare i consumi, alla fine del 2008 il governo laburista di Gordon Brown decise di tagliare l’aliquota dell’Iva dal 17,5 al 15%, facendo scendere il gettito dell’imposta dal 6,4 al 5,7% del pil. Nel 2010, però, anche grazie a questo taglio fiscale, l’economia d’Oltremanica cominciò a dare qualche segno di vitalità, seppur con un modesto incremento del Pil attorno all’1%. Fu in quel momento che il governo di Londra colse la palla al balzo per riportare la tassazione sui consumi al livello precedente del 17,5%, incassando così un ricco bottino: il gettito dell’imposta, nonostante una crescita economica un po’ troppo timida, ebbe infatti un’impennata e superò abbondantemente gli 80 miliardi di sterline, toccando il record storico. Dal Regno Unito, dunque, è giunto un prezioso insegnamento: quando l’economia di un Paese è in profonda recessione (come nel caso della Gran Bretagna del 2008-2009) l’Iva andrebbe diminuita senza remore, mentre una crescita dell’aliquota è consigliabile quando il Pil dà segni di vitalità.

NELLA BUROCRAZIA, L’EUROPA STA PEGGIO DI NOI

Non più di 32 ore all’anno per preparare le dichiarazioni, conservare le carte ed effettuare i versamenti. È il tempo medio che il pagamento dell’Iva richiede alle imprese italiane, secondo le rilevazioni del gruppo Price Waterhouse Coopers (Pwc). La multinazionale della consulenza e della revisione pubblica ogni 12 mesi il report Paying taxes, che mette a confronto i sistemi fiscali dei maggiori Paesi del mondo. Per quanto riguarda l’imposta sul valore aggiunto, anche nel 2013 la burocrazia italiana si è salvata fortunatamente dal giudizio severo degli analisti di Pwc. A Sud delle Alpi, infatti, le aziende dedicano agli adempimenti dell’Iva meno tempo rispetto alle imprese tedesche e austriache, che necessitano di almeno 40-43 ore all’anno. Leggermente più fortunati sono invece i professionisti e gli imprenditori inglesi o francesi, che hanno bisogno in media di circa 30 ore ogni 12 mesi per sbrigare tutte le pratiche. Tuttavia, il nostro Paese resta comunque il membro dell’Unione europea con il sistema fiscale peggiore con un tax rate che arriva al 68%.

SORVEGLIATI A BRUXELLESÈ proprio il contrario di ciò che sta facendo l’Italia, che già nel 2011 ha aumentato dal 20 al 21% la tassazione sui consumi, benché l’economia nazionale sia da tempo in crisi profonda. Si tratta di una strategia che molti giudicano miope e che, va detto, è stata parzialmente imposta al nostro paese dai vertici di Eurolandia. Occorre ricordare, infatti, che il governo di Roma è stato fino a pochi mesi fa un sorvegliato speciale a Bruxelles, soggetto a una rigida procedura d’infrazione, causata dal nostro deficit eccessivo. Allo stato attuale, dunque, per l’Italia sembra impossibile avere la stessa libertà di manovra di cui ha goduto un Paese come la Gran Bretagna, che di Eurolandia non ha mai fatto parte. Ancor meno probabile è che il governo di Roma adotti il modello di altre nazioni extra-Ue come la Svizzera, che ha scelto sempre di non tartassare troppo i consumi, mantenendo l’aliquota massima dell’Iva attorno a un modesto 8%. Stesso discorso per la Cina, il Giappone o l’India, dove l’imposta sul valore aggiunto è assai più contenuta che in Europa e varia tra il 5 e il 17%. E allora, visto che il governo di Roma deve attenersi ai dettami di Bruxelles, all’Italia non resta che fare un tentativo: cercare almeno di non alzare ancora le aliquote, magari aggiustando anche ciò non funziona nei meccanismi di applicazione dell’Iva (si vedano i box in pagina).

LA DIRETTIVA UE E LA SALES TAX STATUNITENSE

In Europa l’Iva è regolata da una direttiva comunitaria(la n.112 del 2006) che ha lo scopo di rendere uniforme la tassazione sui consumi in tutta l’Ue e stabilisce che gli stati membri devono fissare l’aliquota dell’imposta in misura pari almeno al 15%.

Negli Stati Uniti non esiste l’Iva ma una imposta sui consumi che si chiama sales tax e ha un funzionamento un po’ diverso. È un prelievo proporzionale al prezzo del bene, che grava solo sul consumatore finale(alcuni generi di prima necessità sono esenti),varia da stato a stato e di solito ha un aliquota massima del 13%.

Non va dimenticato, infatti, che il tasso di evasione dell’imposta nel nostro paese è ancora molto elevato, mentre tempi di pagamento nelle transazioni commerciali sono assai più lunghi della media Ue e costringono le imprese italiane a versare l’Iva ancor prima di aver incassato la fattura.

IVA PER CASSA: NON BASTA, MA AIUTA

L’Iva per cassa è il nuovo regime che permette alle imprese e ai liberi professionisti di versare l’imposta sul valore aggiunto soltanto dopo aver incassato effettivamente la fattura. Fino all’anno scorso, infatti, l’Iva funzionava in base a un criterio di competenza: in pratica, un contribuente doveva pagare l’imposta anche se non aveva ancora ricevuto dal cliente il pagamento della prestazione eseguita o della merce consegnata. Oggi, invece, le aziende e i lavoratori autonomi che hanno un giro d’affari al di sotto di due milioni di euro annui possono richiedere, in via facoltativa, di aderire al regime dell’Iva per cassa. In realtà la regola comunitaria prevede che l’Iva per cassa sia applicata a soggetti con giro d’affari non superiore ai 500 mila euro, ma per il nostro Paese è stata fatta un’eccezione visto che, nella Penisola, molti imprenditori devono purtroppo subire dei tempi di pagamento biblici. Le transazioni commerciali tra imprese, per esempio, in Italia vengono saldate mediamente in 97 giorni, contro i 52 giorni del resto d’Europa. Gli enti locali, invece, onorano i propri impegni nell’arco di 180 giorni.

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