Ecommerce sì o no? Il dilemma delle pmi

Oltre il 90% dei consumatori fa acquisti sui marketplace, ma sono ben poche le piccole e medie imprese italiane presenti su queste piattaforme. Così, per paura di essere “cannibalizzate” dai colossi delle vendite online, finiscono per perdere preziose opportunità…

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La scena è comune e ricorre ormai da anni: i commessi sulla porta dei negozi vuoti, o da soli dentro, in piedi, fermi, in attesa. Per farci buone domande sul presente del commercio, ancor prima che sul futuro, va accettata una verità: dematerializzare i gesti – che vuol dire consumi, acquisti, relazioni, contatti – è ormai la strada maestra del vivere contemporaneo, ma per spostare culturalmente le persone dal fisico al digitale serve prima spostarci le aziende, le imprese, i brand, le paure, i timori.

Quando i numeri fotografano situazioni eclatanti, i numeri vanno interrogati a fondo. È il caso della recente ricerca firmata Confcommercio Roma e Yocabè in collaborazione con Format Research, istituto di ricerca e di mercato che dal 1992 interroga soprattutto le imprese e i suoi comportamenti. Interroga non è un verbo casuale, dato che lo strumento elettivo del loro mestiere è fare interviste e, in gergo, fare indagini sul campo. Il campo, stavolta, tocca le Esigenze e politiche delle imprese in termini di servizi e logistica, e quanto è emerso marca subito una certezza: rispetto al 91% di consumatori che dichiarano di fare acquisti online, la percentuale di pmi italiane presenti sui marketplace è davvero bassa se i numeri parlano di 80 mila imprese che si avvalgono dell’e-commerce, ma di un risicato 46,4% presente sulle piattaforme di vendita, con un 53,6% che smercia solo e rigorosamente dal proprio sito.

Ecommerce: una leva, non un’alternativa alle vendite

Qualcosa non torna. Pierluigi Ascani è il presidente di Format Research, ogni riflessione la cala nel mondo reale: «Il nostro è un lavoro sociologico, proprio quella sociologia a cui Benedetto Croce tolse l’attributo di scienza. Anche questo studio è partito da lì, perché l’interrogazione dei fenomeni è qualcosa che ha a che fare sia con la logica che con la creatività dello scienziato sociale, e le ricerche prendono una via e si modificano anche in funzione di chi le realizza e di chi studia quei temi. Detto questo, nella ricerca dedicata ai servizi e alla logistica abbiamo cercato di indagare anche una certa evoluzione culturale. Noi fino a qualche anno fa, ma molti ancora lo fanno, tendevamo a considerare l’e-commerce come una modalità di vendita e distribuzione alternativa ai cosiddetti canali tradizionali come la vendita offline, i centri commerciali o i negozi su strada, i supermercati».

L’errore, secondo Ascani, sta nel non aver compreso che il commercio elettronico è una leva e non un’alternativa: «Chi non usa l’ecommerce per le sue personali ragioni, ma sceglie di vendere solo fisicamente, di fatto non riuscirà mai a vendere bene solo fisicamente. Oggi la prima vetrina è quella sul web o sui social network e spesso, ormai, anche le clientele storiche prima di passare in negozio vanno a sbirciare online. L’ecommerce, semplificando, è in assoluto la parte razionale con cui la vendita comunica ormai con i consumatori. Le aziende che sanno utilizzarlo bene, utilizzano persino lo stesso magazzino per il web e per il negozio fisico, ma questa è già una prassi per le più evolute».

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L’innervatura debole del sistema, per la maggior parte delle aziende italiane, sta proprio nel binomio logistica-magazzino e su questo la ricerca parla chiaro: oltre l’80% delle aziende se lo gestisce in proprio e utilizza i corrieri dei fornitori per le consegne. Timore di non stare al passo delle grandi piattaforme internazionali che operano da asso pigliatutto e paura dei costi dei resi (voce che grava per il 35% sulle imprese) fanno il resto.

Un doppio dato ulteriormente sintomatico della incomprensibile distanza con cui le pmi ancora non sfruttano al meglio le occasioni? La frequenza elevata con cui i consumatori approcciano l’ecommerce (il 60% di loro in media fa acquisti sul web o social network almeno una volta al mese) e i settori merceologici più richiesti (abbigliamento e calzature per il 62,1%).

Anche in negozio servono nuove competenze

«La ricerca conferma che gli imprenditori hanno quasi paura di stare dove stanno invece i clienti, cioè o sul web o sui social network, ma la ritrosia di fatto tenderà a diminuire sempre di più, proprio perché è una migrazione inevitabile. La mia impressione è che il campo dove avverrà il dibattito nei prossimi anni si sposterà su due piani. Il primo è quello delle regole. Se una certa impresa vende al dettaglio e su ecommerce, necessariamente si devono fare i conti coi prezzi, con concorrenze che non possono essere sleali, con la logistica, con logiche costanti di messa a disposizione dei prodotti: in sintesi, dovrà vigere la prassi stesso mestiere, stesse regole. Il secondo piano sarà quello del lavoro perché il terziario da sempre è stato una sponda per riassorbire le contraddizioni della manifattura, di stabilimenti che chiudono, di fatto per riassumere persone e processi espulsi dall’industria. Questa ricerca ci offre una traccia per il futuro: il terziario adesso ha bisogno di una manodopera diversa, più qualificata, dove non c’è più il commesso in attesa sulla porta d’ingresso del negozio, ma che dialoga con i propri clienti sui social network, pratica correttamente il web e le sue logiche, studia i comportamenti, conosce e sa gestire magazzini automatizzati, non aspetta più dall’esterno ma si fa propulsore attivo dall’interno. I numeri dicono molte cose, se li sappiamo leggere e rispettare».

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PIÙ CHE UN COSTO, UN INVESTIMENTO – Il parere di Luca Carbonelli, General Manager di Caffè Carbonelli e consulente in e-commerce e gestione di impresa per le pmi


Questo articolo è stato pubblicato su Business People di novembre 2023. Scarica il numero o abbonati qui

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