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Poltrona Frau: il lusso di essere italiani

Esiste un modo tutto nostro di fare le cose, di pensarle e proporle al mondo. C’è un modo di concepire il bello che è figlio tipicamente del nostro Paese e di nessun altro. Di questo dovremmo imparare a fare tesoro per uscire dall’impasse in cui versano l’economia e molte aziende. Parola di Dario Rinero, Ceo del gruppo

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L’Italia dovrebbe di­ventare ciò che è. Si potrebbe riassumere in questo concetto di nietzschiana memoria la visione che Da­rio Rinero, Ceo del Gruppo Poltrona Frau, ha del Paese e della consapevolezza che do­vrebbe ispirare i suoi abitanti. E cos’è il Belpaese secondo il manager cresciuto in Barilla e Coca-Cola e dal 2009 approdato a una società che oltre all’omonimo brand, creato a Tori­no nel 1912, comprende altri due marchi top del design made in Italy del calibro di Cassi­na e Cappellini? È la terra dell’eccellenza di vivere, lui la definisce The Italian way of living, un modo d’essere tutto nostro, di cui dovremmo fare tesoro al punto da trasformarlo in una strategica Risorsa Paese. «Abbiamo il nostro petrolio sotto gli occhi e sembriamo non ac­corgercene», sostiene il dirigente anche lui d’origine torinese, che racconta quanto la storia del suo gruppo – che ha fatto dell’“intelligenza delle mani” (ovvero della capacità tutta tri­colore di saper creare e pensare oggetti di rara bellezza) la sua ragion d’essere – sia emble­matica per far comprendere alle aziende come, quando vuole, anche l’Italia può trasformar­si in una protagonista incontrastata dei mercati internazionali (vedi l’investimento di mez­zo miliardo di dollari fatto dagli americani di Haworth nel febbraio 2013 per aggiudicarse­ne il controllo). Ecco, l’Italia è tutto questo e molto altro, basterebbe convincersene e agire di conseguenza…

Cominciamo col dire com’è andato per il Gruppo Poltrona Frau il 2014? È stato un anno in crescita rispetto al già ottimo 2013, in buona progressione e in continuità rispetto alla serie iniziata negli ultimi anni, fatta da una sostan­ziale tenuta dei mercati più consolidati in Europa, unita a un costante incre­mento sui mercati internazionali. Soprattutto asiatici e, più recentemente, nor­damericani.

La crescita americana è più imputabile alla ripresa dell’economia Usa o al vo­stro ingresso nel Gruppo Haworth? L’attribuirei maggiormente alla crescita del mercato americano. Per darle un’idea, in quell’area nei precedenti 10 anni si erano persi grosso modo tre-quarti dell’export italiano del mobile. Siamo quindi nel pieno di una vera fase di recupero. Un discorso a parte merita invece il mercato domestico, dove nello stesso periodo il consumo di prodotti d’arredo era sceso di oltre il 50%. Ebbe­ne, su questo fronte il nostro gruppo è in controtendenza, perché nel 2014 ha nuovamente registrato un piccolo incremento, confermato anche dal trend dei primi mesi del nuovo anno.

A cosa è dovuta questa differenza di marcia? Penso che attenga alla capacità delle marche nel nostro portafoglio di offrire prodotti percepiti più come beni di investimento che di semplice consumo. Du­rante le crisi si assiste quasi sempre a un distintivo processo di polarizzazione: da una parte clienti che non solo confermano ma a volte incrementano l’acqui­sto di beni di alta gamma (trade-up); mentre dall’altra parte clienti che abbas­sano le loro aspettative e vanno alla ricerca di prodotti più economici (trade-down). In questo sommovimento la parte che viene più compressa è quasi sem­pre la fascia di aziende che sta a metà di questo guado, che non ha né un po­sizionamento high end, né uno value for money. In più, se si osservano tutte le maggiori crisi che hanno ciclicamente afflitto l’economia mondiale, colpisce come le grandi marche ne siano sempre uscite rafforzate. Secondo me, grazie alla loro straordinaria capacità di trasmettere sicurezza anche nei periodi diffici­li. In più, quando il ciclo economico riprende, sono normalmente le prime a ri­partire traendone i maggiori benefici.

Colpisce che, alla fine di tutte le maggiori crisi mondiali, LE GRANDI MARCHE NE SIANO SEMPRE uscite rafforzate

In questi anni avete fatto qualcosa per sostenere questa attitudine della marca o vi siete limitati ad “assecondarla”? Il nostro è un percorso ininterrotto che dura da oltre 100 anni per Poltrona Frau, quasi 90 per Cassina, ormai 70 per Cappellini, tutte aziende che sono state fon­date da imprenditori visionari che le hanno gestite a lungo, e che già negli anni ’60 hanno intravisto le grandi opportunità offerte dall’export, attraverso l’aper­tura di uffici e punti vendita diretti all’estero. Si è trattato di una vera e propria strategia di internazionalizzazione delle marche, non di una semplice attività di esportazione, che fa sì che oggi il 75% del nostro fatturato si sviluppi all’este­ro, il 30% del quale Oltreoceano. Ciò mi fa dire che la nostra attitudine si man­tiene forte grazie all’ispirazione che continuiamo a trarre dai padri fondatori dei nostri grandi marchi.

Anche se un passaggio molto importante è stato, nel 2003, l’approdo al Fon­do Charme.È un’altra esperienza che racconto con piacere perché, malgrado alcune volte si associ sbrigativamente ai fondi un’immagine negativa, nel nostro caso si è rivelata un vero successo. Grazie a un fondo atipico per composi­zione, creato anche in questo caso da imprenditori visionari (da Monteze­molo a Della Valle), con un’ampia visione internazionale, e che aveva colto le opportunità in vista per i gruppi più strutturati nella domanda di beni di lusso a livello globale. Che, infatti, negli ultimi anni ha puntualmente conti­nuato a crescere.

LE PASSIONIDI DARIO RINERO

E lo farà ulteriormente… È vero, perché come un fiume carsico si inabissa da una parte per sgorgare al­trove. Ciò significa che le grandi aziende globali sono quelle strutturalmente più in grado di catturare la domanda in una nuova geografia per fronteggiare il ral­lentamento dei consumi in un’altra. Ecco perché il fondo ha deciso di creare un bouquet che federa tre brand dell’eccellenza italiana, così come i francesi han­no fatto nella moda, creando di fatto un gruppo che rispetta il Dna delle singole entità dando a ognuna la forza necessaria a presidiare i mercati. Tutte prospetti­ve che hanno poi motivato una grande major Usa come Haworth ad acquisire il nostro gruppo, a dimostrazione del fatto che quando un’impresa italiana rie­sce a costruire una progetto chiaro, ben distintivo e a vocazione globale riesce ad attrarre gli investimenti internazionali più qualificati.

Tuttavia, in seguito al vostro passaggio a Haworth si è fatto un gran parlare del fatto che venisse ceduto un altro pezzo importante del made in Italy. Mi consenta di ribadire che, al netto delle chiacchiere, per me ciò che definisce veramente la nazionalità di un’azienda sono due cose: dove si prendono le de­cisioni e dove si produce. Il resto è puramente secondario. Perché, se un’azien­da è posseduta al 100% da un italiano e delocalizza completamente l’attività in Polonia, per me non è italiana, mentre lo è se di proprietà di un americano che produce e decide in Italia. Haworth ha acquisito il Gruppo Poltrona Frau senza alcun progetto di integrazione, visto che loro sono attivi nel settore dei mobili per ufficio (dove sono tra i leader) che ha logiche diverse dalle nostre. Per quan­to ci riguarda siamo rimasti indipendenti come prima. Il management è lo stes­so, così come lo è il prodotto, la cui produzione rimane ovviamente in Italia. Mi sembra, quindi, che l’unico rischio che corriamo sia solo quello di poter di­ventare più forti, di ampliarci e di poter offrire ancora più opportunità di lavoro. Così com’è successo nella moda alle aziende italiane che sono entrate nell’or­bita di Kering e di Lvmh.

Prima ha accennato all’importanza della dimensione sovranazionale delle im­prese. Lei ha spesso stigmatizzato il fatto che il 95% delle aziende siano trop­po piccole e spesso non competitive. Il che, in verità, non è un problema solo del vostro settore. Si possono obbligare le imprese a crescere? In effetti, nonostante sia un vanto del made in Italy, il settore dell’arredo denun­cia ancora forti limiti: il valore della produzione nel 2014 è rimasto invariato ri­spetto al 2013 a 12,5 miliardi, oltre il 60% è esportato in 50 Paesi con un evi­dente apporto alla bilancia commerciale. Ma il tessuto industriale è compo­sto da 27 mila aziende, con un fatturato medio di 600 mila euro e una media di addetti pari a 6,3. Con queste dimensioni, poche sono in grado di esporta­re. Eppure, gli studi econometrici indicano chiaramente la positiva correlazione tra produttività e capacità esportativa. È ovvio che chi è più grande e più efficiente esporti più facilmente, ma è vero anche l’inverso: cioè che attraverso l’aumento dell’export si diventa più efficienti in casa. Esiste poi anche un tema legato alla managerialità: la totalità di queste aziende è a gestione familiare. E, pur essendo un estimatore del capitalismo familiare, avendo lavorato 15 anni in un’azienda come Barilla, colpisce come nell’arredo, a differenza della moda e dell’alimentare, un vero processo di managerializzazione non si sia ancora in­nescato. L’intero settore, quindi, si trova di fronte a un grave ritardo evolutivo.

Cosa si può fare? Il nostro può essere un modello: abbiamo creato una piattaforma che non ha certo ancora terminato la sua capacità catalizzatrice. Altre opportunità sono rappresentate da fondi piuttosto che da gruppi capaci di aggregare più aziende. E poi si deve attivare un’azione di governo che, a mio avviso, è sempre man­cata. Personalmente non credo negli incentivi, in un governo che ti costa tan­to salvo poi ritornarti una parte in sgravi e bonus. Meglio sarebbe un governo snello, che assolva al suo compito e nello stesso tempo lasci libera l’impresa di svolgere adeguatamente il suo mestiere. Non che la munga e poi la sussidi… Mi piacerebbe un governo ispiratore dello sviluppo che dica: «Se tu che fai 100 e lui che fa 50 vi mettete insieme, il surplus di 150 lo tratto con una tassazione agevolata». Solo così si dà alle aziende l’opportunità di crescere e creare occu­pazione. Le stesse associazioni di settore non sono state capaci di ispirare e tra­smettere quanto fosse diventato vitale il cambiamento. Mi piacerebbe, inoltre, un Paese in cui si facesse di più per tutelare la proprietà intellettuale: è incredi­bile come nella patria di Leonardo e della creatività, ci sia un livello di salva­guardia inferiore a quello vigente in Svizzera o in Belgio.

È l’eterna questione della tutela del made in Italy. Certamente, ma non si può continuare a consentire a chiunque di copiare i no­stri prodotti e di poterli vendere tranquillamente in Italia e nel mondo. Eppure, si tratterebbe di un’azione di governo a costo zero, che oltre a tutelare le nostre aziende contrasterebbe il sommerso. In più oggi il Paese è nelle condizioni di fare una politica a favore dell’industria più incisiva che nel passato, riconoscen­done la fortissima vocazione manifatturiera e concentrandosi sui suoi plus, che coincidono con l’indubbia capacità di emozionare e attrarre un turismo medio-alto di gamma. Perché il ruolo principale di uno Stato è proprio quello di iden­tificare i propri punti forti e di investire le proprie risorse là dove esse verranno ottimizzate e moltiplicate. Infine, una parola sugli imprenditori del mio settore, ai quali mi permetto di dire che la svolta decisiva avverrà solo nel momento in cui un grande numero di loro capirà che lo scenario è cambiato e che oggi bi­sogna saper fare un passo indietro per poterne fare due avanti domani.

Percepisce che ci sono quanto meno i presupposti di questa consapevolezza?Credo che, alla luce delle trasformazioni avvenute negli ultimi dieci anni – del­le quali noi siamo stati in qualche misura anche un po’ precursori –, sia diven­tata evidente la necessità di cambiare. Se lei mi chiede se ciò sia successo per un’evoluzione culturale o per gli effetti della crisi, tendo a dire più per que­st’ultima. Però, alla fine l’importante è non disperdere le straordinarie capaci­tà di questi brand, qualche volta anche molto piccoli, che sono il frutto di mol­ti decenni di grande creazione intellettuale e manuale. Personalmente mi sento più povero quando leggo che un’azienda chiude, perché penso a ciò che come Paese, industrialmente e culturalmente, perdiamo. Proprio in quest’ottica due anni fa abbiamo fatto una piccola acquisizione, la Simon, un gioiello dell’ec­cellenza tricolore che portava in dote prodotti straordinari come i capolavori di Carlo Scarpa, per me i più bei tavoli architettonici mai creati nella storia del de­sign. Capitali simili non possono andare dispersi, sono un patrimonio del no­stro Paese e possono diventare splendide opportunità di sviluppo. Come gruppo sentiamo anche la responsabilità di tutelare questo patrimonio, e quando pos­siamo siamo sempre disposti a interventi di salvaguardia.

Esiste un indiscusso pregiudizio tutto italianoriguardo alla RICCHEZZA E AL LUSSO, DOVUTO SENZ’ALTRO ad aspetti culturali

Diversi imprenditori del lusso lamentano proprio una sottovalutazione delle opportunità di sviluppo offerte dal settore, e non solo da parte delle istituzio­ni, nonché un pregiudizio che – per esempio – i francesi non hanno. È vero, ma ancor prima del lusso, il pregiudizio riguarda la ricchezza. Si trat­ta di un atteggiamento tutto italiano, dovuto certamente ad aspetti culturali, e che probabilmente si ricollega anche al fatto che qualche volta nel nostro Paese la ricchezza sia stata generata in maniera non corretta. Tuttavia, costituisce una grossa semplificazione vedere un piccolo artigiano che con impegno fa pro­sperare la sua azienda e può permettersi una grande casa e una bella macchi­na, e sospettarlo quasi automaticamente di evasione fiscale. Di rado c’è lo sfor­zo di andare più in là, per comprendere che dietro il suo successo c’è tanto la­voro, passione per quello che fa, weekend passati a lavorare, rischio finanzia­rio, notti insonni… In più, questo generico atteggiamento anti-ricchezza spesso sfocia in una declinazione anti-industriale, perché – nel solito esercizio sempli­ficatorio – l’industria viene vista un po’ come lo strumento generatore della ric­chezza, quindi del lusso. Invece – anche se qualche segnale positivo si comin­cia a intravedere – è ora che nell’agenda programmatica del nostro Paese si tor­ni a parlare di industria, e soprattutto di industria alto di gamma, visto che non avrebbe senso pensare di poter competere sul terreno della produzione a bas­so costo di manodopera. Con la nostra capacità di saper creare prodotti straor­dinari come nella moda, nell’alimentare, nelle auto, nel design di lusso, oggetti capaci di emozionare a livello globale, basterebbe fare dell’Italia una volta per tutte la patria della bellezza. Ebbene, io credo profondamente che sia questo il nostro petrolio, una fonte inesauribile di energie che vivificherebbe non solo il manifatturiero e il turismo ma molti altri settori economici.

A proposito del nostro “petrolio”, ci saranno due eventi in cui potrà mettersi prestissimo in mostra. Il prossimo Salone del mobile, ad aprile, e – esattamen­te due settimane dopo – l’inaugurazione dell’Expo di Milano. Personalmente sono un po’ emozionato per l’Expo: avendo due figlie di 11 e 13 anni, sono molto incuriosite e mi fanno un sacco di domande. Per quan­to mi riguarda cerco di spiegare loro che l’unico precedente per l’Italia è stato nel 1906, un’edizione straordinaria che contò ben cinque milioni di visitatori (un’enormità considerati i tempi), 35 mila espositori, 40 Paesi partecipanti. Era un’epoca entusiasmante: Milano era una prestigiosa capitale tecnologica e vantava la prima centrale termoelettrica costruita in Europa nel 1883, che ac­cese in quell’anno le luci della Scala, mentre proprio nel 1906 fu inaugurata la galleria del Sempione. Fu una straordinaria avventura, spero proprio che sia di buon auspicio per l’intero Paese, a me piace pensarla così, anche se avrei preferito un tema altrettanto universale, che puntasse però sul concetto di creatività e di bellezza. Ma, come si dice, primum vivere deinde philo­sophari, quindi nutrire il pianeta ha la sua giusta precedenza… Il Salone del mobile sarà, invece, una sorta di aperitivo dell’Esposizione universa­le: i 300 mila visitatori internazionali previsti saranno un assaggio di quan­to ci aspetta tra maggio e ottobre.

Ha la sensazione che le aziende riusciranno a cogliere questa op­portunità? Se c’è una cosa che contraddistingue le aziende italiane è certamente la reat­tività, in quanto a velocità e capacità adattativa siamo imbattibili. Quindi, sono certo che alla fine ognuna riuscirà a fare il suo meglio. Così come Pol­trona Frau Group: siamo pronti a ricevere le migliaia di clienti che ci verranno a trovare da tutte le parti del mondo durante il Salone, mentre in occasione di Expo attiveremo tutta una serie di iniziative ed eventi a rotazione all’interno dei nostri showroom. Per noi il 2015 è un anno particolare, perché si celebra il cinquantenario della produzione Cassina dei mobili di Le Corbusier, Jean­neret, Perriand. È previsto un fitto programma di manifestazioni con mostre e attività culturali all’interno di diversi musei.

Proprio Cassina di recente ha annunciato la creazione di un nuovo tessuto morbido, che assomiglia alla pelle, ma creato da una combinazione tra po­liestere e poliuretano, il waterborn. Tutte le vostre aziende sono caratterizza­te da una forte spinta creativa verso l’innovazione. Come si fa a sposare tale vocazione con la componente tradizionale che comunque contraddistingue marchi storici come i vostri? È una combinazione molto naturale, comune a molte aziende, che nasce dal­lo svegliarsi tutte le mattine col pensiero di creare qualcosa di nuovo, consi­derando un patrimonio ormai acquisito quanto realizzato fino al giorno pri­ma. Provo a spiegarlo più chiaramente al netto della “filosofia”… Per esem­pio, se prendiamo Poltrona Frau, tra i primi 10 prodotti per vendite ce ne sono alcuni in produzione da 100 anni – come Chester – o Vanity Fair che è del ‘30, mentre un buon 50% della lista è stato lanciato solo negli ultimi 5-7 anni, vedi Archibald del 2009. Lo stesso dicasi per Cassina con i mobili di Le Corbusier, Jeanneret, Perriand. Nello stile come nei materiali, c’è una capaci­tà di nutrire i “fiori nella serra” senza con questo rinunciare a uscire fuori per andare a cercarne di nuovi. Non esiste alcun altro portafoglio di prodotti d’ar­redo che abbia la stessa valenza, è come dire Hermès e le sue Kelly. Ebbene, noi vogliamo ispirarci proprio da queste grandi aziende che sanno nel tem­po reinterpretare la tradizione. Pensi che in Poltrona Frau utilizziamo lo stesso tipo di pelle che usavamo un secolo fa, questo però non ci ha impedito di creare la Soul, un tipo di pelle naturale e non trattata, piuttosto che la Heri­tage o la Century, una pelle nuova ma screpolata in modo da sembrare usa­ta come se avesse 50 anni. Da noi non esiste un unico grande genio che pen­sa per Poltrona Frau, ma i nostri prodotti sono il frutto dell’impegno di centi­naia di persone che, in fabbrica e nei laboratori come sui mercati, ogni gior­no vedono cose nuove traendone ispirazione che traducono in prodotti. Pro­prio in questa sapienza e capacità innovativa diffusa risiede la forza dell’ec­cellenza italiana.

Se c’è una cosa che distingue le aziende italiane è la reattività: IN QUANTO A CAPACITÀ ADATTIVA siamo imbattibili

Scorrendo il vostro codice eti­co, si leggono indicazioni preci­se su materiali e processo produt­tivo. Il che è un dato importan­te visto che di recente si è pole­mizzato molto sui prodotti di lus­so. Cosa fate per non incorrere, per esempio, nelle critiche mosse a Moncler? Da almeno cinque anni, realiz­ziamo un rapporto di sostenibilità del nostro gruppo, dove dichiaria­mo con grande trasparenza le no­stre policy, tra cui il controllo e la certificazione dei fornitori. Li visi­tiamo spesso, così come i nostri clienti visitano noi: nel caso dell’automotive, per esempio, lavoriamo con Ferrari, Maserati, Porsche, Jaguar, Audi, che sono anch’esse aziende molto attente al tema. Una semplice cosa abbiamo impa­rato sul campo: che una buona materia prima ha una soglia di prezzo sotto il quale non si può scendere senza che ciò comporti processi critici. Bisogna continuamente vigilare e valutare, è un’etica comportamentale che coinvolge le persone ancor prima delle aziende.

Mi spiega in cosa consiste il concetto di The Italian way of living da lei teorizzato?Quando negli anni ’70 e ‘80 l’Italia ha cominciato a esportare, l’accezione made in Italy si riferiva essenzialmente alla realizzazione produttiva nel no­stro Paese. Verso la fine degli anni ’90, c’è stata invece un’evoluzione in cui si è passati all’Italian lifestyle, nella quale il focus si spostava dal prodotto al produttore, cioè fatto da un italiano con tutte le implicazioni di gusto che ciò comportava. Adesso siamo entrati in una terza dimensione esperienziale, con The Italian way of living o, come cita lo slogan di una famosa marca di ac­qua minerale, Live in Italian. Cioè si è passati a un significato ancora più am­pio, perché comprende in un solo colpo le colline, le piazze, i campanili, i musei, le montagne, il sole, attiene al nostro modo di stare insieme, si tratta di un’esperienza molto più immersiva, perché è uno stile di vita, che va ben ol­tre – lo dico con molto rispetto – al made in Germany… Made in Italy adesso vuol dire che quel prodotto è figlio di un mondo di eccellenze culturali e manifatturiere, che ti coccolano, facendoti gustare ottimi sapori e indossare bel­lissimi abiti, invitandoti a vivere così come farebbe un italiano. Non c’è nes­sun altro Paese al mondo che possa dire e fare altrettanto.