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Lifestyle

Un calcio alla crisi

… ma sempre con un tocco di classe ed eleganza. Quelle che contraddistinguono da anni, nel mondo, i marchi di calzature made in Italy. Tra i pochi settori, attualmente nella penisola, a registrare segni positivi. Artigianalità qualificata, tecnologie d’ultima generazione ed export le loro ricette “anti-default”

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Ma lo sa che siamo nati – glielo dico in dialetto calabrese – allu paisi du scarpari?», sottolinea orgoglioso Cosimo de Tommaso, presidente dell’omonima azienda di calzature fatte a mano con sede a Paola (Cs). Pare infatti che, in età napoleonica, i contadini del vicino Castrolibero, all’epoca avamposto francese, lustrassero gli stivali ai soldati francesi per ingraziarseli, la sera al ritorno dai campi. E, proprio in quegli anni, a un artigiano fiorentino il Bonaparte in persona commissionò alcuni manufatti di ars sutoria da indossare in battaglia. Come si chiamava quel ciabattino? Guarda caso, Cosimo de Tommaso. Quando si dice il destino nel nome…

Forti di altrettanti leggende e storie familiari nate in botteghe e laboratori, tra spaghi, martelli, piedi di ferro e tenaglie, esistono in Italia diversi marchi di lusso di scarpe in grado di vantare una lunga e consolidata tradizione, dalla Lombardia al Veneto fino all’Emilia Romagna e alle Marche. Mentre numerosi settori della Penisola arrancano sotto i colpi della crisi, queste aziende non solo resistono alle difficoltà, mostrando una sostanziale solidità produttiva, ma registrano anche vere e proprie crescite, nel fatturato – con aumenti a due cifre – e nell’occupazione – dopo 15 anni di perdita di lavoro, e in particolare nell’annus horribilis 2009 – nel 2011 il comparto è tornato a vedere un leggero ritocco verso l’alto, mettendo a segno un +1% che fa ben sperare (dati Anci 2012). Il segreto? Più di uno, ma principalmente un mix strategico che combina investimenti ingenti in manodopera specializzata, lavorazioni tecnologiche di prim’ordine, una forte continuità territoriale e un’intensa opera di internazionalizzazione.

I numeri di chi “fa le scarpe” alla crisi

5.600

imprese italiane attive nel settore nel 2011

80.925

gli addetti

207,4

milioni di paia di calzature realizzate

7

miliardi di euro il giro d’affari

4,8%

crescita del fatturato (a valore sul 2010)

12,7%

aumento dell’export

(Fonte: Shoe Report 2012, Anci)

ALTA SPECIALIZZAZIONE NEI DISTRETTI LOCALI

Quando si fatica a far quadrare i bilanci aziendali, in genere, nelle imprese, una delle prime voci che viene ridimensionata, se non addirittura eliminata, è quella della formazione del personale. Nel caso delle piccole e medie realtà che producono scarpe made in Italy il discorso è ben diverso, visto che l’artigianalità specializzata e l’alto grado di professionalità interna continuano a costituire dei tratti caratteristici e distintivi che le differenziano da sempre sui mercati globali. «Cerchiamo di valorizzare al massimo le esperienze presenti in azienda, attraverso un’organizzazione flessibile e uno stile partecipativo», racconta Bruno Fantechi, amministratore delegato della bolognese A. Testoni. «C’è grande attenzione a trasmettere alle nuove generazioni ciò che è l’identità del nostro marchio: i suoi elementi peculiari di unicità, la sua storia, le caratteristiche costruttive e di prodotto, il senso di appartenenza e lo stretto legame col territorio». Inoltre, nei percorsi sviluppati ad hoc «non mancano mai visite alla fabbrica, spiegazioni delle tecniche produttive, diffusione delle nozioni tecniche su materiali e categorie merceologiche». Aggiunge Fantechi: «Per resistere alla crisi, in una prima fase ci siamo focalizzati su una razionalizzazione dei costi intesa soprattutto come ottimizzazione dei processi operativi e organizzativi. Successivamente abbiamo puntato a una reimpostazione delle politiche di sviluppo, unita a un aumento graduale degli investimenti, per esempio in ricerca, messa a punto di nuovi materiali, specie pellami, sperimentandoli in abbinamento con tecniche costruttive innovative».

Da Funo di Argelato (Bo) ci spostiamo a Fiesso d’Artico, sulla Riviera del Brenta (Ve), dov’è operativo dal 1945 il calzaturificio Ballin. «Lo sviluppo degli ultimi anni ha segnato anche un aumento in termini di occupazione», commenta Gabriella Ballin, direttore commerciale. L’azienda è passata da un fatturato di 20 milioni di euro del 2009 a oltre 50 milioni nel 2011 e da quasi 170 dipendenti a 220. Attualmente il 35% del giro d’affari complessivo è ottenuto dal marchio proprio, focalizzato sulle calzature femminili d’alta gamma, mentre il 65% è relativo alla lavorazione per conto terzi. Negli obiettivi, però, c’è il potenziamento del brand individuale anche attraverso lo sviluppo del segmento accessori, dalle borse alla piccola pelletteria. Afferma ancora Ballin: «Una delle nostre scelte strategiche consiste nel confermare la vocazione al made in Italy attraverso il radicamento sul territorio, andando a ridurre le incidenze sui costi di produzione con interventi a risparmio energetico, ma aprendo nuove divisioni sempre in ambito locale. Per mantenere alto il livello delle professionalità abbiamo attivato al nostro interno dei reparti di formazione, affiancando alle attuali maestranze dedicate alla produzione anche nuove leve, a cui far imparare un mestiere che altrimenti andrebbe perso, dalla modellatura all’orlatura, fino alle fasi del finissage».

Esperienza e competenza sono le parole d’ordine anche per Moreschi che, legato al distretto di Vigevano (Pv) dal 1946, conta 400 addetti e produce annualmente 240 mila paia di scarpe. L’azienda ha chiuso il 2011 con una crescita del 10% del fatturato pari a circa 37 milioni di euro e punta ai 40 milioni entro dicembre. «Siamo sempre stati presenti sul territorio.

La manodopera, prevalentemente femminile, è quasi esclusivamente della zona», commenta Francesco Moreschi, consigliere delegato dell’azienda. «Continuiamo a fare formazione interna, che è certo quella più costosa – per diventare una buona orlatrice occorrono due anni! – ma assolutamente necessaria. Non è un lavoro standard, facilmente so

IMPIANTI E STRUMENTI HI TECH D’AVANGUARDIAstituibile: richiede, al contrario, abilità e padronanza specifiche».

La ricerca e lo sviluppo, uniti alla professionalizzazione delle risorse umane, accompagnano da sempre l’attività della calabrese de Tommaso. «All’inizio della nostra attività siamo andati nelle campagne e nelle montagne della regione per cercare qualche vecchio calzolaio che potesse trasferire il suo sapere ai giovani», ricorda Cosimo de Tommaso, presidente del calzaturificio. «L’età media in azienda è di circa 32 anni. Ed è una realtà fortemente scolarizzata: per noi lavorano, con bravura e passione, tanti diplomati che nel resto del nostro territorio non trovavano uno sbocco occupazionale». La formazione è proseguita in una fase successiva cinque anni fa, quando, per far fronte alle prime scosse della crisi mondiale, si è reso necessario affrontare il mercato secondo una prospettiva rinnovata. «Abbiamo deciso di rivolgerci maggiormente al consumatore finale piuttosto che al rivenditore», specifica l’imprenditore. «Abbiamo attuato una riorganizzazione interna e abbiamo combinato l’artigianato puro con la tecnologia». In quest’ultimo segmento, gli investimenti sono stati pari a 400 mila euro. Ai giorni nostri il marchio cosentino realizza scarpe di lusso, fatte a mano, anche per il Vaticano – prima per Giovanni Paolo II, ora per Benedetto XVI – e per le star della notte degli Oscar a Los Angeles (arrivando finanche a sedurre George Clooney). Oggi il brand è associato, nel mondo, a scarpe di lusso “3D”. Proprio così, avete capito bene. Lasciando da parte schermi e occhiali stereoscopici che l’acronimo evoca, vediamo in che cosa consiste più precisamente questa particolare lavorazione: «Nell’ambito dell’innovazione dell’azienda siamo approdati al “footscanner”», spiega ancora de Tommaso. «Si tratta di un dispositivo hardware che effettua una scansione tridimensionale, in tempo reale, del piede. E, una volta acquisita, questa sorta di “TAC” viene digitalizzata ed elaborata tramite computer. A partire da tale tecnologia, applicandola alla produzione di scarpe fatte a mano, l’abbiamo successivamente implementata e personalizzata. Ed ecco che siamo giunti al servizio su misura a distanza per i clienti, grazie a cui la committenza di lavori per l’estero, dall’Australia agli Stati Uniti fino alla Russia, è aumentata sensibilmente».

Anche la marchigiana Manas ha fatto da anni, dell’innovazione, il cardine della sua attività. Non a caso il calzaturificio di Montecosaro (Mc) è stata il primo del settore in Italia ad avere ottenuto la certificazione di qualità ISO 9001, puntando sul design industriale come elemento distintivo per i prodotti e i servizi al cliente. Spiega Cleto Sagripanti, amministratore delegato della casa marchigiana e presidente Anci (Associazione nazionale calzaturifici italiani): «Abbiamo creato un’organizzazione a rete, una sorta di “distretto nel distretto”, dove abbiamo concentrato tutte le funzioni chiave, dalla progettazione alla produzione, dalla vendita ai servizi post vendita». Manas è inoltre impegnata nella promozione di attività di recupero e riciclaggio di rifiuti per ridurre al minimo l’impatto ambientale.

CUORE NELLO STIVALE, PIEDI NEL MONDO

Tra le strategie messe in campo dalle aziende calzaturiere italiane per consolidare la loro espansione in termini di business e fatturato ci sono anche significativi percorsi di internazionalizzazione. Come quello intrapreso, per esempio, da Nuova Centauro, holding company delle linee a marchio Alberto Guardiani, con sede a Montegranaro (Ap). Dei 32 milioni di euro di fatturato nel 2011, il 57% è registrato in Italia e il 43% restante all’estero, ma occorre evidenziare una crescita dei mercati stranieri, specie a fronte dell’impegno profuso per la globalizzazione del brand. «I Paesi principali per l’export sono Russia, Turchia, Medio Oriente, Asia, che, insieme a Stati Uniti e Gran Bretagna, risultano anche quelli in cui ci stiamo sviluppando di più», nota Alberto Guardiani, presidente di Nuova Centauro. E proprio in quelle quattro aree sono previste per il 2013 altre aperture retail, dopo il debutto ad aprile di due nuovi monomarca a Capri. «Le nostre vendite in Italia sono stabili, anche se il mercato è fermo e ha bisogno di nuovi stimoli per ripartire», fa presente Guardiani. Per l’azienda l’internazionalizzazione passa anche attraverso il Web: «Nel maggio del 2011 abbiamo inaugurato il nostro store on line albertoguardiani.com, che ha fatto registrare una crescita delle vendite del 50% dal primo al secondo semestre di vita. Una vetrina internazionale che ci ha permesso di essere apprezzati in mercati nei quali non esiste una rete di distribuzione: dall’India all’Ecuador, alla Nuova Zelanda, per citarne alcuni», conclude Guardiani.

«L’export costituisce il 60-70% del nostro fatturato, con previsioni di ulteriore crescita», dichiara Giorgio Cappelletti, presidente dell’omonima azienda di Sant’Elpidio a Mare (Fm). «In Italia vendiamo il residuo 30-40%, quota che negli ultimi anni è andata progressivamente a ridursi». La casa marchigiana si è attivata anche nella ricerca di licenze di marchi di fascia alta: «Dal 2010 abbiamo firmato il contratto per il marchio Bogner, molto conosciuto nei Paesi di lingua tedesca e russa per uno sportswear di qualità» prosegue Cappelletti. «Nonostante la crisi internazionale, l’avvio è stato molto positivo. Al momento abbiamo contatti per aggiungere un altro marchio prestigioso».

«All’estero siamo presenti dagli anni ‘50 e ‘60 e Oltralpe il marchio è ben conosciuto», sottolinea ancora Moreschi dell’omonima realtà di Vigevano. «Ora ci stiamo focalizzando sempre di più sui nuovi mercati, Cina e Medioriente su tutti, facendo un po’ di fatica in Italia e in Europa, dove registriamo una lieve flessione. Se nella Penisola contiamo nove punti vendita, abbiamo richieste di nuove aperture in aree extra Ue, dove siamo già presenti con una ventina di boutique. Stiamo valutando i partner giusti per collaborazioni solide e continuative».

F.lli Rossetti tra Cina ed e-commerce

In linea con la fotografia del comparto scattata da Anci, Diego Rossetti (al centro, nella foto), presidente di Fratelli Rossetti, conferma che l’export sta andando particolarmente bene. «La Cina è il Paese che sta crescendo di più, ma buone soddisfazioni ci arrivano anche dagli Stati Uniti». Dopo due nuove aperture a Hong Kong e Shanghai, «altre due boutique seguiranno il prossimo anno sempre nel Paese asiatico, mentre Oltreoceano abbiamo in programma il rifacimento del nostro negozio di New York per il 2013». Ulteriori novità dello storico marco di Parabiago (Mi) sono relative al Web. Anticipa infatti Rossetti: «Stiamo rinnovando il nostro sito per garantire maggiore interattività e più informazioni per i consumatori. Inoltre, a settembre, partiamo col nostro progetto di e-commerce, per presidiare un settore variegato e in continua espansione».

«SALVATE IL (VERO) MADE IN ITALY!»

«Noi tutti abbiamo un marchio fortissimo e indistruttibile: si chiama made in Italy. Questa espressione racchiude in sé un grande contenuto fatto di aspirazione, bellezza, creatività, innovazione, modo di essere, di vivere e di pensare. Credo che la bellezza, forse, potrà salvare l’Italia più di ogni altra cosa». È Cleto Sagripanti (Manas, Anci) a riassumere, in questa affermazione, quanto ci hanno sottolineato anche tanti altri imprenditori calzaturieri. Realtà così importanti per il territorio d’origine, e in grado di muovere un indotto consistente anche a livello nazionale, che hanno sfidato la crisi continuando a investire in innovazione, formazione, esplorazione e conquista di nuovi mercati. Come auspicato da molti di loro, adesso urge un intervento più incisivo e coraggioso da parte delle istituzioni per una maggiore attenzione e trasparenza a livello legislativo e burocratico, affinché davvero si fregino dell’etichetta made in Italy manufatti artigianali di alta qualità realizzati da una manodopera locale altamente specializzata, che ancora ci contraddistingue nel mondo e che sempre di più, purtroppo, rischia di scomparire.