Mayweather-Pacquiao: la grande boxe non getta la spugna

Grazie all’incontro più pagato della storia, si riaccendono i riflettori sulla nobile arte, che mira a riconquistare il titolo di sport più amato del mondo

La boxe torna sul ring. All’angolo destro c’è Manny Pacquiao, detto Pacman, perché piccolo di statura ma velocissimo a colpire; filippino, 37 anni, 57 vittorie, cinque sconfitte e due pari all’attivo, è il primo pugile a vincere dieci titoli mondiali in otto diverse categorie. A quello sinistro scalda i muscoli Floyd Mayweather Jr, detto “Money”, perché è l’atleta più pagato del mondo, 37 anni, americano, figlio d’arte, 47 incontri combattuti e zero sconfitte. Il “match del secolo” appena tenutosi a Las Vegas (il 2 maggio) vale 400 milioni di dollari tra sponsor, diritti Tv e incassi. Ma soprattutto è l’evento sportivo che riaccende le luci sul quadrato della nobile arte. Perché questo incontro, tanto atteso tra i campionissimi dei pesi welter, è anche una sfida per il futuro della boxe. Per riacciuffare il titolo di sport più amato del mondo.

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Boxe e letteratura: con la penna tra i guantoni

Negli ultimi 40 anni il pugilato ha preso botte da orbi e ha rischiato più volte di finire K.O.. Scandali di corruzione, moltiplicazione esponenziale di categorie di peso (oggi ce ne sono 17) e di numero di federazioni (ben quattro), in un vortice autolesionista da far invidia alla parabola discendente di Toro Scatenato, quel Jake LaMotta che ha ispirato il monumentale film di Martin Scorsese. Non a caso, la storia del cinema ha pescato a più riprese tra le corde del ring: guardando ai campioni mancati o dimenticati del passato (Rubin Carter in Hurricane, James Carter in Cinderella Man), alle stelle intramontabili (Alì di Micheal Mann), o inventandosene di nuovi (la saga di Rocky Balboa interpretata da Sylvester Stallone o il recente lungometraggio The Fighter). Il grande schermo, dai tempi di Charlot Boxeur di Charlie Chaplin fino alle imprese spavalde di Micky Rourke che esce dal cinema per tornare a combattere, in un incontro dimostrativo a Mosca, a sessant’anni suonati, è sempre stato affascinato da questo sport estremo. Incantato di fronte alle vite di atleti spesso tormentati, messi a nudo nel quadrato del combattimento dove le possibilità di riscatto e fallimento rimangono in bilico per una manciata di riprese.

Eppure, la popolarità dei guantoni, così forte al cinema, si è sgonfiata nel tempo e nelle palestre. Probabilmente la data da fissare per l’inizio del declino è il 1963, quando nasce la Wbc (World Boxing Council), la prima delle tre (le altre sono Ibf e Wbo) federazioni spuntate a far concorrenza alla storica World Boxing Association. E da quest’anno se ne aggiunge una quinta: l’Aiba Pro Boxing, la sigla direttamente creata e gestita dall’International Boxing Association, un circuito che permette ai pugili di salire sul ring in ambito professionistico senza perdere lo status di dilettante, in cui è entrato a far parte il campione italiano Clemente Russo (tra i nostri migliori pugili del momento insieme al peso supermassimo Roberto Cammarelle).Insomma, difficile orientarsi in questo mare di sigle.

I ragazzini di oggi, che conoscono a memoria le giocate dell’attaccante portoghese Cristiano Ronaldo, faticano invece a ricordare il nome dei grandi pugili contemporanei. Probabilmente l’ultima star nota ai più è stata Mike Tyson, poi qualche lampo ma sempre più lontano dalle luci della ribalta. La nobile arte è uscita dal ring dalla fama. Le palestre si svuotano di campioni in erba. E le arti marziali orientali conquistano i più giovani. Chiusa dentro i confini della pay per view, perché le immagini in chiaro degli incontri sono giudicate troppo violente da molti, oggi il pugilato prova a tornare in scena per vincere l’incontro più importante: quello della sopravvivenza.

LEGGENDA VUOLE CHE SIA STATO

IL RE DI ATENE, TESEO,

A INVENTARE QUESTO SPORT.

LE REGOLE MODERNE SONO STATE

POI CODIFICATE TRA ‘800 E ‘900

LA PALESTRA DELLA NOBILE ARTE.Cazzotti scommesse e riscatto sociale. La storia della boxe è millenaria. La leggenda vuole che sia stato il re di Atene, Teseo, a inventare la nobile arte. Si combatteva nudi e da seduti, solo le mani erano rivestite di lacci di cuoio. Vinceva chi non stramazzava al suolo. Le regole del pugilato moderno sono state poi codificate a più riprese in Inghilterra a cavallo tra ‘800 e ‘900. È in Gran Bretagna che nasce la noble arte of self defence con la rivestitura di guanti imbottiti, la divisione dei combattimenti in “assalti” da tre minuti e il knock out, per poi trovare applicazione e fama negli Stati Uniti, la vera grande arena della boxe mondiale.

Il pugilato è lo sport degli emigrati. Di quegli uomini che riempivano i piroscafi per andare a cercare una vita migliore sull’altra riva dell’Atlantico. Negli anni ‘20 del secolo scorso, un armadio ambulante come Primo Carnera, un tizio che tirava a campare nei circhi francesi come fenomeno da baraccone per via della stazza e della smisurata altezza (oltre i due metri), stendeva gli avversari avendo bene in mente la miseria nera della sua famiglia di origine, in Friuli. E poi Jack LaMotta, Rocky Marciano. Dentro al ring, non ci sono classi sociali, solo grinta e voglia di emergere. Sono gli anni della grande boxe degli italo-americani. Gli Stati Uniti del dopoguerra andavano matti per questi tipi, duri che non si arrendevano mai.

Negli anni ‘50 e ‘60 arriva l’età d’oro del pugilato, che coincide con l’ascesa degli atleti di colore: da Sugar Ray Robinson fino a Cassius Clay, diventato Muhammad Ali, la farfalla che faceva imbufalire gli avversari schivando i colpi con passi leggiadri per poi colpire veloce e letale come un’ape. Dal ring Ali fa politica, contesta la guerra in Vietnam, rinuncia al titolo mondiale pur di non arruolarsi e servire la leva obbligatoria. E sceglie di disputare l’incontro del secolo in Zaire, confrontandosi con l’altro campionissimo, George Foreman.

Sono anche gli anni del nostro Nino Benvenuti, campione olimpico nel 1960, vincitore del prestigioso premio di Fighter of the year nel 1968 e incluso dalla International Boxing Hall of Fame e dalla World Boxing Hall of Fame fra i più grandi pugili di ogni tempo. Poi è venuto il tempo dei duri alla Mike Tyson e dei macigni dell’Est europeo, come i fratelli ucraini Vitalij (oggi sindaco di Kiev) e Volodymir Klycko. Per l’Italia è l’epoca di Patrizio Oliva che, dopo una brillante carriera da dilettante culminata con la conquista dell’Oro olimpico a Mosca nel 1980 nella categoria superleggeri, passa alla boxe professionistica conquistando in sequenza il titolo italiano, quello europeo e il titolo di campione del mondo di categoria. Per poi riuscire a conquistare il titolo di campione d’Europa anche nella welter. Ma le palestre si svuotano.

Le sacche di povertà dei Paesi avanzati diminuiscono. È difficile trovare ragazzi disposti a prendere cazzotti per salire sull’ascensore sociale della boxe. La violenza intrinseca allo sport, sebbene per praticarlo occorra un passo da ballerino e un cervello da scacchista, e i numerosi incidenti scuotono l’opinione pubblica, che sembra non volerne più sapere. Dopo la morte del 23enne Braydon Smith, anche l’Australia oggi si interroga se continuare con il pugilato professionistico. E poi nell’epoca del real time, degli eventi sportivi a ciclo continuo, la vecchia boxe mal si addice ai tempi moderni, visto che i campioni combattono due, massimo tre volte l’anno. In America i New York Yankees giocano 162 partite di baseball solo nella regular season. Il mondo sportivo è in balìa delle frequenze della Tv. E il pugilato finisce fuori dal ring.

LA BOXE MAL SI ADDICE

ALL’EPOCA DEL REAL TIME

VISTO CHE I CAMPIONI

COMBATTONO DUE,

MASSIMO TRE VOLTE ALL’ANNO

FINO ALL’ULTIMO ROUND (IN ROSA). Nel 2004 Clint Eastwood dedica le sue energie a un film sulla boxe. L’attore e regista ha un armadio pieno di ricordi e memorie, perché fa parte di quella generazione americana che ha vissuto appieno l’età dell’oro del pugilato, quei favolosi anni ‘60 e ‘70 che hanno consacrato campioni come Muhammad Ali, George Foreman, Joe Frazer. Eppure sceglie di girare il suo dramma melò di pugni e psicologia attorno alle gesta di una donna pugile, interpretata da Hillary Swank in Million Dollar Baby (vincitore di quattro premi Oscar nel 2005). E forse non è un caso che oggi, nel pieno della crisi della boxe, l’emblema del ritorno al combattimento abbia un Bfemminile.

Quest’anno, infatti, la Norvegia ha tolto il bando al pugilato professionistico, messo fuori dal ring per lungo tempo perché il combattimento senza casco protettivo, appunto quello dei professionisti, è giudicato troppo pericoloso. La decisione dello stato nordico segue quella di Svezia e di Cuba che hanno di nuovo autorizzato i combattimenti dei pro. L’emblema del ritorno al pugilato norvegese è quello di Cecilia Braekhus, la ragazza nata in Colombia 33 anni fa, e adottata da piccola da una famiglia di Oslo, che è l’unica donna a detenere il titolo mondiale dei pesi welter in tre federazioni diverse. Una supercampionessa al passo con i tempi. Giovane, colta e seducente, ospite dei programmi televisivi in Germania, dove da qualche tempo risiede.

Alle Olimpiadi di Londra 2012 è stato inserito nelle discipline in gara, per la prima volta nella storia dei Giochi, il pugilato femminile. I vecchi maestri e gli esperti scuotono la testa. Molti pugili dichiarano apertamente la propria avversione alla boxe in rosa. Ma è indubbio che le palestre disertate dalle giovani generazioni di pugili si stiano popolando di ragazze. Perché oggi la boxe è uno sport diverso dal passato, meno celebrato ma più praticato. Beninteso, a livello amatoriale. Dal 2001, da quando lo consente la legge, a oggi in Italia si sono tesserate più di 500 donne. L’anno scorso agli Europei giovanili le ragazze italiane hanno vinto ben quattro medaglie d’oro. Chissà, domani il futuro Rocky Balboa potrebbe essere un’atleta in gonnella.

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