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Italiani investitori (troppo) prudenti

Capitali fermi, perdita di fiducia nelle obbligazioni e imperituro affidamento al mattone. Così è cambiata la gestione dei risparmi dal 2008 a oggi*

Cosa pensano gli italiani della ricchezza e come la utilizzano? In Italia si continua a ri­sparmiare per prudenza e per la previden­za. Scorrendo i dati di Banca d’Italia sulla composizione della ricchezza finanziaria delle famiglie negli ultimi dieci anni, emer­ge un dato più che emblematico: il gonfiarsi della bolla del cash, tenuta ferma a seguito del combinato disposto di rendimenti poco incentivanti, paura e incer­tezza verso il futuro. Un insieme di fattori che si è tradotto, sul piano della gestione dei propri risparmi, in una minore propensione all’inve­stimento: meglio non spendere e tenere i soldi fermi. Come osser­vava Franco Modigliani, economista e premio Nobel, il bisogno di ri­sparmiare «può essere collegato a obiettivi di sicurezza individuale e familiare nel lungo termine».

Ma c’è modo e modo, appunto, di im­piegare i propri risparmi. La pianificazione finanziaria, infatti, è anco­ra poco diffusa in Italia (solo un terzo lo fa), come è emerso dall’ultimo Rapporto della Consob sulle scelte di investimento delle famiglie: la maggioranza (60%) «non segue una regola precisa», si legge nel Rap­porto; e chi lo fa «definisce in modo sequenziale un obiettivo di spesa alla volta». Gli italiani che risparmiano in modo regolare – soprattut­to per motivi precauzionali – sono solo il 31%; il 26% non accantona nulla perché deve spendere tutto per far fronte ai fabbisogni famiglia­ri. Non è però questo il caso dei soggetti più abbienti, dove infatti il ri­sparmio è più frequente: è il caso degli imprenditori, dei manager, dei professionisti (soprattutto nelle regioni del Centro-Nord), che hanno in genere maggiori conoscenze finanziarie, sono abituati a pianificare e, non di rado, sono inclini «all’auto-efficacia, l’ottimismo e la contabi­lità mentale» e mostrano quindi una maggiore predisposizione all’in­vestimento finanziario.

L’unica forma di investimento che accomuna tutte le fasce di reddito, resta il “mattone”: il 43% delle famiglie nel 2019 risultava aver contrat­to un prestito per l’acquisto della prima casa, posseduta dal 72% degli italiani, oltre che per finanziare le spese correnti. Lo conferma anche la recente fotografia di Bankitalia sulla ricchezza degli italiani (più di 10 mila miliardi di euro), che risulta per la maggior parte ancora immobi­lizzata nella casa (4,6 volte il reddito disponibile), nei depositi banca­ri e postali (il 31% della ricchezza finanziaria) e sempre meno in titoli, caduti al 7% del portafoglio dal 30% dei primi anni 90. In particola­re, Via Nazionale fa notare la perdita di peso all’interno del portafoglio degli italiani delle obbligazioni bancarie, a causa sia della scomparsa dei benefici fiscali di cui godevano sia dell’entrata in vigore delle rego­le sul bail-in (risoluzione delle banche), che hanno fatto decisamen­te perdere a questi titoli l’appeal che avevano sugli investitori. «Gran parte delle obbligazioni bancarie detenute dalle famiglie scadrà entro il 2020» e «in assenza di nuovi acquisti la loro quota, oggi del 2%, scen­derebbe a meno dell’1% della ricchezza finanziaria», scrive Bankitalia.

I portafogli degli italiani sono stati disinnescati dalle mine provenienti da un malandato sistema bancario, ma si sono caricati del rischio Pa­ese. Le famiglie, infatti, hanno dirottato gli investimenti dalle obbliga­zioni verso i prodotti del risparmio gestito: fondi comuni e strumenti assicurativi e pensionistici, che tra l’altro sono anche più remunerati­vi per gli intermediari che li distribuiscono, hanno raggiunto il 35% del portafoglio, «superando ormai da anni i valori toccati all’apice del ci­clo favorevole della Borsa del 1995–2000». Ma dove investono questi strumenti? Bankitalia ha guardato attraverso i prodotti finanziari, ap­plicando un metodo detto look-through per fare luce sulla destina­zione finale del risparmio delle famiglie e valutare i rischi a cui sono esposti i risparmiatori. Risultato? I titoli di debito e le azioni, detenuti direttamente e indirettamente, rappresentano, in realtà, entrambi cir­ca il 23% della ricchezza finanziaria degli italiani, mentre i titoli pubbli­ci italiani sono circa il 16% del totale delle attività finanziarie, portando così la quota di Btp detenuti dalle famiglie a circa il 30% considerando gli investimenti intermediati dai fondi comuni esteri.

Ma facciamo un passo indietro per vedere com’è cambiato il modo di investire degli italiani negli ultimi due lustri, dalla grande crisi del 2008 a oggi. Il punto è centrale per capire come negli anni successivi alla crisi si sia evoluto il rapporto degli abi­tanti della Penisola con la propria ricchezza e, quindi, quale sia ora la loro propensione a investire, visto che gran parte del dena­ro è ancora ferma sui conti. Per esempio, un’indagine presenta­ta dal Censis assieme ad Aipb, l’associazione italiana del private banking, ha acceso i riflettori sulla montagna di denaro “inutiliz­zata” che potrebbe “lavorare” sui mercati finanziari, andando a sostenere l’economia reale e, quindi, il cosiddetto made in Italy: parliamo di una quota complessiva di biglietti, monete e deposi­ti che alla fine del 2018 è arrivata a quota 1.390 miliardi di euro, una somma pari al 33% del totale del portafoglio delle famiglie, cresciuta del 13,7% dal 2008. A fronte del boom del cash, gli in­vestitori hanno aumentato le riserve assicurative, che a fine 2018 rappresentavano il 23,7% del portafoglio, una quota che è qua­si raddoppiata in due lustri (+49,4%), mentre hanno ridotto le obbligazioni (passate dal 21% nel 2008 al 6,9% del portafoglio nel 2018) e le azioni (-12,4% la diminuzione della quota in die­ci anni).

Lo studio, insomma, fa capire come anche gli italiani si stiano orientando dagli investimenti diretti a forme sempre più intermediate di investimento, in cui la decisione dell’allocazio­ne delle risorse è delegata all’intermediario. E un’ultima tenden­za, lato offerta, per traghettare le risorse verso l’economia reale, è quella di sviluppare strumenti ad hoc: i Pir, introdotti nel 2017 dal legislatore italiano sulla base di esperienze analoghe matura­te in Francia e Regno Unito; e gli Eltif, introdotti da un Regola­mento europeo del 2015. Entrambi presentano delle agevolazio­ni fiscali per gli investitori. Sono strumenti idonei a investitori istituzionali (banche, fondi pensione) o investitori privati abbien­ti. Gli italiani con maggiori disponibilità finanziarie, stando alla recente indagine del Censis, mostrerebbero infatti «un atteggia­mento positivo verso la ricchezza, condizionato a un suo uso pro­ficuo per la comunità» e sarebbero, quindi, più predisposti a un utilizzo di parte del loro portafoglio a sostegno dell’economia del Paese. Anche gli investitori retail potrebbero essere coinvolti in questo processo attraverso la partecipazione a strumenti di in­vestimento collettivi, come i fondi pensione. In passato, infatti, è stato proprio il risparmio degli italiani a tenere acceso il moto­re della crescita e dello sviluppo della Penisola. E non vi è ragione per ritenere che non lo sia ancora in futuro.

*Articolo pubblicato su Busines People, gennaio-febbraio 2020

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