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Io sto con l’olio di palma

Condannato dopo una campagna mediatica impressionante e difeso solo da Ferrero il grasso vegetale più discusso della storia resta sulla cresta dell’onda. Ecco perché

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Se la pubblicità vi ha fatto credere che la vera domanda sia «che mondo sarebbe senza Nutella?», sappiate che vi siete sbagliati. La questione più importante è: che Nutella sarebbe senza olio di palma? Fortunatamente per la crema alle nocciole più famosa del mondo, celebrata anche da Nanni Moretti in Bianca, non c’è bisogno di struggersi nel cercare la risposta a tale dilemma. Perché Ferrero non ha fatto marcia indietro sull’olio vegetale più discusso d’Italia.

La guerra contro l’olio di Palma

Facciamo un passo indietro a circa tre anni fa, quando la testata il Fatto alimentare dichiara guerra all’olio di palma che «fa male alla salute» e «non è sostenibile». Le accuse innescano la discussione su un prodotto di cui pochi consumatori conoscevano l’esistenza. «Dallo scorso 13 dicembre milioni di consumatori italiani ed europei hanno scoperto la presenza di un nuovo ingrediente in migliaia di prodotti alimentari», recitava la petizione lanciata su Change.org. «Stiamo parlando dell’olio di palma, una sostanza fino a oggi camuffata dietro la scritta “oli e grassi vegetali”. Per rendersi conto di quanto l’olio di palma sia diffuso basta dire che è il grasso principale di quasi tutte le merendine, i biscotti, gli snack dolci e salati, le creme… in vendita nei supermercati. L’ampio utilizzo di questa materia prima è dovuto sia al costo estremamente basso, sia al fatto di avere caratteristiche simili al burro». Il tono è chiaro, alcune conclusioni perlomeno discutibili. Perché è vero che l’olio di palma costa poco, ma è anche diffuso in tutto il mondo e rappresenta un ingrediente perfetto per i procedimenti industriali. L’olio di palma e il palmisto, il suo derivato, rappresentano infatti il 35-40% della produzione mondiale di oli vegetali (a fronte di appena il 6% del totale delle aree coltivate grazie alla sua resa straordinaria). Seguono soia (27%), colza (14%) e girasole (10%). Per capirci, l’olio d’oliva rappresenta l’1% del mercato, essendo consumato praticamente solo nel Mediterraneo.

La moda del “senza olio di palma”

Seguono convegni, articoli e campagne che portano gran parte dell’industria a interrogarsi sulle reali qualità di questo prodotto. La risposta è quella corsa al “senza olio di palma” che inizia a comparire su qualunque confezione presente nei supermercati. Anche su quelle dei prodotti dove non è mai stato presente. Ormai è diventato al pari di una moda: se ce l’hai sei out. Come detto, solo la multinazionale di Alba lavora alla risposta e presenta nel settembre 2016 una campagna di comunicazione per raccontare i benefici e la sostenibilità delle proprie materie prime con la Ferrero Palm Oil Charter. «Si è trattato di una questione soprattutto informativa: i consumatori non sapevano di mangiare un grasso saturo. Paradossalmente, se la questione fosse nata oggi dopo le nuove regole sull’etichettatura, non ci sarebbe stato tutta questa attenzione», sostiene Stefania Ruggeri, nutrizionista del Centro di ricerca per gli alimenti e la nutrizione (Crea). «Non tutto quello che è sul mercato è buono, i consumatori sono liberi di mangiare la carne separata meccanicamente e, ovviamente, anche fumare le sigarette. Basta che siano a conoscenza di quello che comprano». In Italia, inoltre, non c’è un sistema di monitoraggio sul consumo degli alimenti, come quello di altri Paesi e avviato recentemente dal Crea. C’è il paniere dell’Istat, che però guarda altri parametri. Nasceva così il problema di capire quanto olio di palma potessero assumere i soggetti “a rischio”, come i bambini o le donne in gravidanza. Le raccomandazioni internazionali, infatti, suggeriscono di limitare l’assunzione di grassi saturi al di sotto del 10% del fabbisogno giornaliero: per esempio, 250 kcal sulle 2500 necessarie a un uomo adulto.

Olio di palma: i “pro e contro”

«Le aziende non sono cattive, anzi: mirano a fare prodotti sempre migliori mantenendo l’equilibrio tra costi e prezzo finale. Soprattutto oggi, che il cibo ha un valore oltre la semplice nutrizione. Dal punto di vista “tecnologico”, l’olio di palma è perfetto: non ha sapore, è incolore, dà stabilità, regge le alte temperature e conferisce texture, costa poco… Era la scelta migliore possibile, tanto che ancora oggi l’industria dolciaria non ha ancora trovato un valido sostituto». Nel pieno della discussione, è arrivato il rapporto dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare che ha posto la questione della cancerogenicità. Durante il trattamento ad alte temperature necessario per solidificarlo, vengono sviluppati dei componenti pericolosi per la salute. «Anche da questo punto di vista, non sapevamo quanto eravamo esposti a tali agenti. Oggi, con l’olio di palma rimasto praticamente solo nei gelati e nella Nutella, possiamo valutarlo. Ma, in fondo, si ritorna sempre al principio base della dieta variata: mangiando un po’ di tutto, non si accumulano agenti contaminanti. Anche assumendo tutti i giorni spinaci si causa un surplus di nitrati».

Gli effetti della guerra all’olio di palma

Cosa è successo da allora? Il prezzo dell’olio dopo anni di crescita si è stabilizzato a prezzi di mercato normali, mentre in Italia è schizzato il valore del burro: +113% in un anno, ha denunciato la Coldiretti a metà del 2017, i valori più alti dal 2014. Un’inflazione che ha messo a rischio i conti dell’industria dolciaria. E non è una soluzione definitiva: anche il burro, più buono e dotato di antiossidanti e vitamine, è un grasso saturo. Il problema nutrizionale resta, si elimina quello dei cancerogeni. Nel frattempo Ferrero ha annunciato di essere pronta a brevettare un processo di lavorazione dell’olio di palma a 140° che risolverebbe la questione. «La verità è che quest’attenzione sull’olio di palma, eccessiva in Italia rispetto ad altri Paesi, non è stata utile né all’industria né ai consumatori», sostiene Giovanni Fattore, ex direttore (o professore ordinario) del dipartimento di Analisi delle politiche e management pubblico dell’Università Bocconi. «Lo slogan “senza olio di palma” non è nemmeno un vero claim, ma dal punto di vista psicologico gioca sulla percezione ormai comune di “olio di palma non fa bene”. Si è cercato di far passare il messaggio che i prodotti “con” siano qualitativamente e salubremente inferiori agli altri. E questo nonostante la comunità scientifica stia rimettendo in discussione anche le teorie sui grassi saturi».

L’olio di palma è sostenibile?

L’altra accusa contro l’olio di palma è quella della scarsa sostenibilità, a causa del disboscamento di grandi aree di foresta pluviale in Indonesia e Malesia, pari all’8% della produzione mondiale (seguono Nigeria, Tailandia e Colombia). Nel 2008, la produzione globale di olio di palma ha raggiunto i 48 milioni di tonnellate e nel 2015 è arrivata a 62. Secondo la Fao, entro il 2020 la domanda globale raddoppierà, fino a triplicare per il 2050. «Questo è un terreno ragionevole di discussione, anche se l’olio di palma è particolarmente efficiente: consuma poco territorio e ha una resa straordinaria (3,8 tonnellate per ettaro a fronte dello 0,8 della colza, ndr). Le accuse valgono per qualunque coltura intensiva nei Paesi emergenti. La specializzazione riduce la biodiversità, è naturale, ma non si può mettere alle strette un Paese perché ha un prodotto di successo, è un’altra forma di discriminazione. È doveroso, piuttosto, richiedere pratiche sostenibili ai produttori affinché usino materia prima da filiera certificata», secondo gli standard simili a quelli della Roundtable on Sustainable Palm Oil. Anche se, va detto, il 40% della produzione arriva da piccole attività indipendenti che, con meno di 5 ettari di terreno, escono dalla povertà assommando redditi fra i 4 mila e i 12 mila dollari l’anno (in Malesia il salario medio è 2.400 dollari l’anno). Insomma, Ferrero ha fatto bene a fare della difesa dell’olio di palma una bandiera? I numeri dicono di sì, perché dopo una caduta del 3% dei ricavi, la campagna realizzata in occasione dei 70 anni dell’azienda sembra aver rimesso le cose a posto (+4%). «Sicuramente ha fatto una scelta coraggiosa», conclude Fattore. «In parte ha pesato sicuramente la dimensione multinazionale del gruppo di Alba. Troppo spesso pensiamo in termini locali, ma Ferrero esporta tantissimo, soprattutto in Asia. I veri interessi sono lì: cambiare la ricetta della Nutella avrebbe danneggiato l’immagine di salubrità e la capacità di esportazione. Meglio perdere una piccola quota di mercato in Italia che rischiare ripercussioni internazionali».

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