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Italia: senza trasporti non si riparte

Per rilanciare l’economia è indispensabile rendere efficienti servizi basilari come i mezzi pubblici locali. Riuscirà il Pnrr dove le altre normative hanno fallito?

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Nel 1997 l’approvazione del decreto Burlando – dal nome del ministro dei Trasporti e della Navigazione del primo governo Prodi – prometteva l’avvio di un periodo di riforma del Trasporto Pubblico Locale (TPL). Oggi, 24 anni dopo, l’obiettivo «di incentivare il superamento degli aspetti monopolistici e di introdurre regole di concorrenzialità nella gestione dei servizi di trasporto regionale e locale» (art. 18) non sembra essere stato raggiunto.

«Lo stato di salute del Trasporto Pubblico Locale in Italia? Una catastrofe», spiega Marco Ponti, già ordinario di Politica Economica al Politecnico di Milano. «Abbiamo le tariffe tra le più basse d’Europa, i costi di produzione tra i maggiori e quindi un altissimo deficit. Ne consegue che le casse dello Stato devono pagare delle cifre irragionevolmente elevate. E questo perché non si osserva la legge, che obbliga a mettere in gara periodica le concessioni».

Dal punto di vista normativo, gli interventi che hanno disciplinato il settore sono stati molteplici. Prima la Legge 99/2009, che, all’articolo 61, aveva attenuato il principio dell’obbligo di affidamento dei servizi tramite procedure concorrenziali previsto dal decreto Burlando al fine di «armonizzare il processo di liberalizzazione e di concorrenza nel settore del trasporto pubblico regionale e locale con le normative comunitarie». Il riferimento era al regolamento europeo 1370/2007 e alla prevista facoltà, per le autorità competenti a livello locale, di aggiudicare direttamente i contratti di servizio. Proprio nel regolamento 1370/2007 e nella giurisprudenza europea sull’affidamento in house viene individuato dal paper Questioni di economia e finanza. Il trasporto pubblico locale tra passato, presente e futuro (a cura di Sauro Mocetti e Giacomo Roma, entrambi ricercatori del dipartimento di Economia e Statistica della Banca d’Italia) uno dei motivi per cui, «a quasi dieci anni dal decreto Burlando, era ancora molto limitato l’affidamento con procedure concorrenziali», essendo stato infatti «consentito l’affidamento del servizio a operatori interamente controllati dagli enti locali, permettendo così di derogare al principio della gara». A ciò si aggiunge una seconda ragione: la consolidata prassi della proroga dei contratti in essere tra enti locali e gestori, con durate spesso ben superiori al periodo massimo di nove anni previsto dal decreto Burlando.

Nell’analisi della Banca d’Italia, sono i dati dei contratti di servizio dei comuni capoluogo di Provincia a spiegare quale sia la situazione: prevalenza della modalità di affidamento diretta o a un operatore in house; ridotto numero di gare, meno di un caso su cinque, con un «utilizzo di procedure competitive più diffuso nelle regioni settentrionali e assente, al contrario, in quelle centrali»; proroga nell’80% dei casi dei contratti di gestione del servizio. Oggi la disciplina che regola il settore è contenuta nel decreto legge 50/2017, che promuove l’utilizzo di procedure a evidenza pubblica e prevede, nel caso in cui le regioni e gli enti locali non procedano all’espletamento delle gare, penalizzazioni nella ripartizione del Fondo nazionale per il concorso finanziario dello Stato agli oneri del trasporto pubblico locale (Fondo TPL).

Un tema centrale dunque quello della concorrenza per un settore in cui oltre il 70% degli operatori che gestiscono il Trasporto Pubblico Locale ha partecipazioni pubbliche, quasi sempre in posizione di controllo. Ed è partendo dall’analisi di questi operatori che si può comprendere la struttura del TPL, il cui funzionamento viene influenzato anche dall’efficienza dei gestori del servizio. Nel paper viene evidenziato come più di una società su dieci operante nel settore abbia un utile di esercizio negativo. Una proporzione che «è più elevata (una ogni quattro) per le società che operano nel Mezzogiorno, mentre è prossima allo zero per quelle che gestiscono il servizio nelle regioni settentrionali». Ciò che ne deriva è che, «l’utilizzo di procedure meno competitive nell’affidamento del servizio e l’esistenza di proroghe della concessione sono negativamente correlati con indicatori di efficienza della società», come un più basso indice di efficienza operativa, dato dalla maggiore incidenza del costo del lavoro sul fatturato, e una minore profittabilità, misurata nel rapporto tra margine operativo lordo e fatturato.

Ma non solo. Per il professor Ponti altri due sono gli aspetti da sottolineare. Il primo è che «c’è anche il fatto, politicamente rilevante, che molte aziende che dichiarano profitti non sottolineano che questi sono a valle di sussidi ingentissimi, profitti che non hanno alcun significato economico». Il secondo è il tema del confronto tra il contesto nazionale e quello europeo. «In altri Paesi europei, dove l’affidamento segue la procedura di gara, si è avuta una netta riduzione dei costi senza alcun peggioramento del servizio», continua il professore. «Il banditore della gara pone infatti una serie di clausole che garantiscono l’efficienza anche sociale del servizio stesso (il livello tariffario, per esempio) e che l’affidatario deve rispettare, pena la perdita della concessione».

Ulteriore elemento di paragone è la qualità percepita, che per gli utenti italiani è significativamente inferiore rispetto a quanto riscontrato nel contesto europeo. Un quadro più specifico della situazione viene fornito dall’indagine Quality of life in european cities, condotta dalla Commissione Europea nel 2019. Dal punto di vista del trasporto pubblico, quattro sono i parametri considerati: accessibilità del servizio, livello di utilizzo da parte della popolazione, soddisfazione generale e frequenza delle corse. Negli ultimi due indicatori, il primato, negativo, è italiano: Napoli raggiunge il valore più basso in termini di soddisfazione generale, pari al 18%; Palermo si colloca invece all’ultimo posto per frequenza delle corse, con il 22%. Ciò che ne consegue è un maggiore utilizzo dei mezzi privati e, dunque, un più alto livello di congestione del traffico urbano. Come sottolineato nel testo del report della Banca d’Italia, «il saldo tra la percentuale dei soddisfatti e quella degli insoddisfatti [nell’utilizzo del TPL, ndr] è negativa, a fronte di valori positivi per il resto dei Paesi presi a confronto».

Minore è il numero di persone che utilizzano il trasporto pubblico locale e meno remunerativo è il servizio, «con riflessi […] sulla situazione economico-finanziaria dei gestori». La spesa per passeggero è pari a 1,40 euro al Sud, contro gli 0,80 centesimi del Centro-Nord. Il miglioramento della qualità del servizio dipenderà dalle riforme e dagli investimenti che verranno attuati nei prossimi anni. In primo luogo, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. La Missione 2 Componente 2 del Pnrr stanzia 8,58 miliardi di euro al fine di sviluppare un trasporto locale più sostenibile. Due sono gli investimenti che riguardano il TPL: 3,60 miliardi di euro per sviluppare il trasporto rapido di massa, allo scopo di ottenere uno spostamento di almeno il 10% del traffico su auto verso i sistemi di mobilità collettiva; 3,64 miliardi di euro per il rinnovo di flotte bus e treni verdi, acquistando circa 3360 bus a basso impatto ambientale entro il 2026. «Gli investimenti previsti privilegiano e supportano il processo di elettrificazione delle flotte autobus già in corso nelle principali città europee e italiane», spiega Gabriele Grea, docente di Economia e Gestione del Trasporto Pubblico Locale all’università Luigi Bocconi di Milano. «È il caso di Milano per esempio, il cui obiettivo è una flotta completamente elettrica entro il 2030». Il rinnovo del parco autobus dei servizi di trasporto locale e regionale era già previsto dal Piano Nazionale per la Mobilità Sostenibile, approvato nel 2019. «In questo Piano di investimento pluriennale, con cui il Pnrr si pone dunque in continuità, sono state previste delle quote per l’acquisto di mezzi a basso o nullo impatto ambientale: il 30% entro il 2022, il 50% entro il 2025 e l’85% entro il 2030». Nel futuro del TPL c’è poi c’è il MaaS (Mobility as a Service). L’idea è quella di una piattaforma che, integrando i vari servizi di trasporto, offra agli utenti la possibilità di pianificare ed effettuare i propri spostamenti attraverso un’unica interfaccia, abilitando funzionalità come la pianificazione, l’acquisto dei servizi, la bigliettazione. Lo scopo è rendere l’accesso alla mobilità sostenibile più flessibile, user friendly e competitivo rispetto all’utilizzo dell’auto di proprietà.

«Il concetto di MaaS», precisa il professor Grea, «viene oggi declinato intorno a tre modelli di governance: l’ecosistema business oriented, in cui diversi integratori sia digitali che legati a un operatore di mobilità competono in base alla capacità di aggregare servizi, quello basato su un open back end in cui è un soggetto pubblico a definire la piattaforma aperta e le regole di condivisione delle informazioni, garantendo una migliore aderenza agli obiettivi pubblici di sostenibilità, e il modello dell’operatore di TPL come integratore unico, che pone l’accento sui benefici pubblici a scapito delle potenzialità di sviluppo del mercato». L’offerta di servizi integrati da piattaforme MaaS è però oggi ancora limitata. Nella maggior parte dei casi, a livello europeo, si tratta di integrazione del trasporto pubblico locale con un numero contenuto di servizi di micro-mobilità o di sharing. «Sfruttare il potenziale del MaaS significa definire un mix di regole e incentivi che favoriscano lo sviluppo di questo mercato», conclude il professore. Anche qui, infatti, il tema della concorrenza è cruciale. «Il quadro può funzionare solo in un caso: se le modalità di trasporto più sostenibili rimangono competitive e strategiche».

*Articolo pubblicato su Business People di ottobre 2021

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