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Cosa resta del ’68 – Vincent Nagle: “Molto da buttare, tanto da salvare”

Nel ’68 Vincent Nagle aveva appena 10 anni, troppo giovane per partecipare attivamente agli eventi, ma abbastanza per rimanerne segnato e ricordarne contorni ed effetti. Era il sesto di otto fratelli che hanno subito appieno il sommovimento che nella sua San Francisco prese piede a partire dal ’64 nelle aule dell’Università di Berkeley. Seguendo i fratelli e una madre “particolare” che lo condusse a vivere – in piena adesione hippy – nella foresta, è cresciuto in un ambiente influenzato da Buddhismo, trascendentalismo, mormonismo, new age, all’interno di una famiglia sopra le righe (se non disfunzionale) immersa nella mentalità dei tempi, scandita da sesso, droga e rock’n’roll. A un tratto arriva la scoperta del Cristianesimo, la permanenza in Marocco e Arabia Saudita, dove approfondisce la conoscenza dell’Islam, infine la decisione di studiare teologia, l’avvicinamento a Don Luigi Giussani e l’arrivo in Italia. Oggi, padre Nagle svolge il suo ministero a Roma, e guarda con lucidità a quanto accadde mezzo secolo fa.

Padre Vincent, lei si sente vittima del ’68 o pensa che quanto ha vissuto l’abbia anche arricchita?Un po’ l’uno e un po’ l’altro. Avendo avuto un padre spaesato e assente, e una madre confusa da quanto la circondava, ho affrontato temi di sesso e di droga in un’età nessun in cui bambino dovrebbe. Soprattutto senza l’aiuto di un adulto. Ma è anche vero che quel cambiamento radicale è stato una bomba che ha costreto tutti noi a crescere più in fretta. E questa è stata anche una ricchezza.

Cosa salverebbe e cosa butterebbe via di quegli anni? Un punto di non ritorno positivo è stato che da allora categorie di persone poste ai margini della società, vedi le donne, i gay, la gente di colore hanno cominciato a essere considerate maggiormente. Il riverbero negativo è stato, tra gli altri, l’assoluta intolleranza verso chi la pensava in maniera diversa. Quanto veniva proposto era un nuovo mondo, una nuova umanità in cui tutto sarebbe stato più giusto grazie a un nuovo ordine basato sull’amore.

Un’ideale rivelatosi un’utopia… Ovviamente, perché si trattava di una falsa antropologia: ai loro occhi l’uomo era fondamentalmente giusto, mentre sarebbero state la società, le istituzioni e la scuola a corromperlo. Ecco perché, nel momento in cui venivano eliminati questi elementi malvagi, l’uomo avrebbe creato una società basata sull’amore. Il che è assolutamente irrealistico. È su queste false teorie che si sono formati i giovani di quella generazione, di fatto dei disadattati. Non a caso molti di quelli che ho conosciuto sono finiti in carcere, altri si sono arresi alla droga e alla violenza, tanti sono morti prematuramente. Per inseguire un ideale improbabile avevano gettato via tutto quanto, anche di buono, c’era prima. La maggior parte si è persa: è sopravvissuto solo chi era più forte.

Ma oggi non si sente la mancanza di quella spinta ideale?Sì. Le rivelo una cosa che ho sperimentato direttamente: un uomo è vivo in virtù della promessa ideale che lo attrae, della speranza di un di più che lo muove. Anche se ero piccolo, allora mi sono sentito “vivo di un’ebrezza” di novità e di positività, e ad arrecarne il messaggio era la musica. Per altri la droga… Tutto questo ha reso quel periodo entusiasmante. Per questo ancora oggi molti di quelli che hanno vissuto quegli anni ne parlano, malgrado le storture, le bugie e le ingiustizie, come di un’era felice. Quando non persegue un ideale, l’uomo s’incattivisce e mortifica la sua reale statura. Il problema degli ideali del ’68 è che erano falsi. Ciò non toglie che sia stato un periodo fantastico, sul conto del quale bisogna ascrivere anche tanti morti e feriti.

Il punto di vista di:

Possono esistere rivoluzioni senza morti e feriti?(Pausa, ndr) Una volta avrei risposto di no, perché mi sarei chiesto che prezzo fossi disposto a pagare e, soprattutto, a far pagare per far nascere questo nuovo mondo ideale. Perciò comprendo l’approccio degli islamisti che pensano di creare un nuovo mondo passando dalla violenza. Oggi rispondo di sì, perché il problema non sta nella mancanza di leggi perfette o nelle istituzioni corrotte e nelle persone avide, ma risiede nel cuore di ogni uomo ferito che non sa mettersi in pace con Dio. Non sono le rivoluzioni esteriori a produrre quel cambiamento interiore che ci porta a schiudere le porte della Casa del Padre.

Cosa pensa del movimento spirituale, soprattutto attraverso la pratica di religioni orientali, che contraddistinse il ’68? Che fu reso possibile dai limiti che esistevano nella pratica del Cristianesimo. Quindi, si può dire che in quegli anni, come oggi, è stata lanciata una sfida alla pratica della fede in Gesù Cristo che ha dovuto difendersi dall’essere considerata una sorta di guardiana dell’ordine costituito. Una falsità, perché il Cristianesimo esiste innanzitutto per liberare l’uomo dalle paure, sotto le quali decade. Paure di cui non sono alla fine rimaste immuni le spiritualità che hanno preso piede in quegli anni, basti vedere l’intolleranza che hanno imparato a manifestare verso chi insidia i loro consensi e guadagni. Certo, c’è stato anche chi ha vissuto con lealtà quegli ideali, perché ha continuato a coltivarli nella propria interiorità, e chi l’ha fatto ne è rimasto intimamente arricchito.