Malati di luogocomunismo
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È tempo di rivedere il nostro immaginario collettivo, ovvero di ritoccare il patrimonio di luoghi comuni (e pregiudizi) che fa parte integrante della cosiddetta cultura moderna. Ci ripensavo l’altra sera guardando un film danese su Netflix che, almeno nelle intenzioni, avrebbe dovuto raccontare la Toscana (da qui il titolo), ma nei fatti enunciava l’idea che i danesi si sono costruiti di questa bellissima regione italiana. Che con la vera Toscana c’entra quasi nulla: un profluvio di italiani bonaccioni pressapochisti, giri in Vespa, panorami da cartolina, improbabili insalate di pomodori e mozzarella nonché donne vestite con abitoni stile anni ’50. Noi? Che anche la più scalcagnata delle fiorentine, delle milanesi (romane etc etc) avrebbe da insegnare qualcosa di originale su come vestirsi alla più trendy delle danesi? Noi? Che con la nostra cucina dettiamo legge nel mondo (quanti ristoranti danesi avete contato nei vostri viaggi?), siamo ancora rappresentati come dei sempliciotti, quasi senza spina dorsale…
Non ce ne vogliano gli amici danesi, li prendiamo solo a pretesto di un meccanismo che è anche nostro e che attraversa trasversalmente ogni sfera della nostra vita lavorativa e privata. Ma limitandoci alla dimensione professionale e pubblica, mi sovveniva l’altro giorno una frase del Buddha: «L’uomo è ciò in cui crede. L’uomo è l’immagine dei suoi pensieri, quindi spesso l’uomo diventa quello che crede di essere». Meccanismo che qualsiasi psicologo confermerebbe, solo che Gautama ebbe l’ardire di pronunciarlo oltre sei secoli prima di Cristo, quindi molto prima che il dottor Sigmund Freud fondasse la psicanalisi.
E credo che questo meccanismo sia anche proiettivo, ovvero che pure gli altri – a lungo andare – diventino per noi l’immagine che ce ne siamo fatti, e ci relazioniamo con loro conformandoci all’idea che ne abbiamo costruito nel tempo, tanto che loro finiscono col comportarsi come noi ci aspettiamo che facciano. È una sorta di reciproca ipnosi.
Tutto questo per dire che, spesso, parlando con degli amici mi accorgo che hanno un’idea del loro datore di lavoro – imprenditore o manager che sia – legata al concetto di padrone, il che corrisponde al vero (molti di loro ancora sono a quel livello). Però è anche vero che altri hanno fatto e stanno facendo un salto evolutivo verso un ideale di impresa che metta sempre di più al centro i propri dipendenti e i propri clienti, ma cozzano con la difficoltà di non saper comunicare le loro intenzioni, a tratti scontano problemi di credibilità pregressa, e quindi i rapporti in azienda si rivelano delle manovre di avvicinamento dove a tratti l’uno insegue l’altro senza mai incontrarsi.
Il che vale anche nella politica: siamo certi che continuare a trattare la classe politica come una categoria di buoni a nulla abbia fatto il gioco del Paese? Temo che il luogocomunismo sia uno dei virus più cari agli abitanti della Penisola, contro il quale non esiste vaccino migliore della cultura della complessità. Ma quanti sono disposti a farselo inoculare?
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