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Lavoro

Salario minimo sì o no?

Si cerca da anni – a dire il vero con poca convinzione – di stabilire un importo minimo di stipendio anche nel nostro Paese. Come non lasciare per strada le fasce lavorative più deboli, senza mettere a rischio la sopravvivenza delle imprese? E che fine fa la produttività?

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Se c’è un grande assente nel mercato del lavoro italiano, è il dibattito pubblico. Lo si intuisce prima osservando la qualità delle notizie che circolano su media e organi di informazione – scarsa, superficiale, costruita per frasi fatte dalla politica e dalle istituzioni – per poi averne conferma dalla modalità con cui se ne discute, impostando la questione sempre sul contrasto assoluto del giusto o sbagliato, sempre o contro o a favore senza mezze misure. Invece su simili questioni è proprio tra le pieghe che andrebbe messo il dito per capirne lo stato di salute, prima che si faccia piaga.Dire “salario minimo” non è roba da poco, così come non è detto che riescano a reggerlo tutte le imprese. Di certo dire salario minimo è dire la vita dei lavoratori misurata dalla busta paga che per molti, ormai, è sinonimo di sopravvivenza. Non è un caso se l’Italia, negli ultimi trent’anni, è stato l’unico Paese Ocse non solo a far ristagnare i propri salari, ma proprio a farli scendere: -2,9%. Intanto la Francia saliva così come la Germania, che ha iniziato la sua corsa verso l’alto già nel ’91, o come i Paesi dell’Area Baltica che hanno iniziato la scalata nel ’95 insieme al Portogallo.

Non sono trent’anni a caso quelli dei decenni 1990-2020: basta poco per capire che il mercato del lavoro ha iniziato a invecchiare, a ingessarsi, già dentro quei primi anni 90 che sfilarono la benda alla corruzione dilagante da Tangentopoli in giù, alle lungaggini e inefficienze giudiziarie, a sistemi fiscali penalizzanti sia per le imprese che per i lavoratori, alla scarsa produttività della nostra economia interna che fa ancora i conti con un tessuto a fortissima presenza di pmi, che però arrancano davanti al salto di passo tecnologico, perché continuano a confonderlo col solo digitale senza capire che la maturità passa prima per una diversa cultura e organizzazione del lavoro.

Salario minimo: la situazione in Europa

Guardare con prospettiva allargata aiuta sempre la visione d’insieme, tanto più perché non si può parlare di Europa solo dal buco della serratura dell’euro. Il Parlamento europeo lo spiega facile quando dice che si tratta del salario più basso che i datori di lavoro devono pagare ai dipendenti: un importo variabile da Paese a Paese, là dove previsto, ma che negli anni non è bastato a coprire le spese quotidiane dei lavoratori. Lo scorso novembre i deputati europei hanno deciso di avviare i colloqui con i governi Ue per una proposta di direttiva che garantirà a tutti i lavoratori dei rispettivi Paesi «un salario minimo equo e adeguato»: lo scopo è stabilire quei requisiti di base che garantiscano un reddito capace di coprire almeno dignitosamente il livello di vita dei lavoratori e delle loro famiglie oltre che rafforzare il contatto collettivo là dove copra meno dell’80% degli occupati; tutto questo rispettando al massimo le prerogative nazionali e soprattutto l’autonomia delle parti sociali nel determinare i salari.

Due le strade proposte: il salario minimo legale (cioè il livello salariale più basso consentito dalla legge, regolato da statuti o leggi formali) o la contrattazione collettiva fra i lavoratori e i rispettivi datori di lavoro (sei i Paesi Ue che rientrano in questo filone). L’Italia non ha un vero e proprio salario minimo inteso all’europea, ma ha i contratti nazionali che definiscono i minimi da applicare alle singole categorie di lavoratori. Una nota va fatta in mezzo al contesto europeo: la scelta di affidare il compito di determinare il livello minimo alla legge o alla contrattazione collettiva segue coerentemente la tradizione e la cultura dei singoli sistemi di relazioni industriali dei Paesi. Così come va chiarito che la Ue, tra i suoi pilastri, richiama solo «il diritto del lavoratore a una retribuzione equa e sufficiente» e mai una soglia minima per l’Unione dal momento che, sulla base dei Trattati europei, la materia salariale è saldamente di competenza nazionale.

Quello poi che rileva, in fin dei conti, è che la vera distinzione tra i regimi europei riguarda il campo di applicazione del salario minimo che può essere di tipo universale – vale a dire applicabile a tutti i lavoratori – ovvero settoriale, cioè destinato a settori o gruppi di occupati. Quello universale spopola in Europa: sono 22 i Paesi che lo hanno scelto; noi italiani stiamo invece nel gruppetto da sei, insieme ai Paesi nordici (Danimarca, Finlandia e Svezia) e all’Austria. È notizia di fine febbraio che la Germania, con un salario minimo introdotto nel 2015, ha varato l’aumento a 12 euro all’ora: partiva dai precedenti 9,82, con un rialzo notevole di oltre il 20%. Entrerà in vigore il 1° ottobre prossimo e la riforma porta la firma dei socialdemocratici sulla base di un programma politico concordato con Verdi e Liberali. Facendo qualche conto in tasca ai lavoratori tedeschi, su 40 ore settimanali il salario toccherà circa i 2.110 euro a mese: busta paga base che oggi non poteva scendere sotto i 1.621 euro (dati Eurostat febbraio 2022). Anche la Spagna ha preso coraggio e ha fatto il passo per circa 2 milioni di lavoratori, con non poche frizioni politiche e sociali: è di metà febbraio la decisione di un salario minimo fissato a 1.000 euro, calcolato su 14 mensilità. Due le note sulla decisione spagnola: la prima è che la validità del salario minimo sarà persino retroattiva al 1° gennaio scorso (il Paese partiva da uno stipendio medio minimo a 965 euro quindi in busta paga si parla di 35 euro in più), la seconda è che dall’intesa si sono sottratte tutte le associazioni di categoria imprenditoriali che si sono ritenute disallineate rispetto alla proposta del Governo.

Intanto l’Eurostat fa il punto sul resto d’Europa (calcolando sui 12 mesi canonici): in cima alla classifica dei salari minimi svetta il Lussemburgo (2.256 euro al mese). Seguono l’Irlanda a 1.774 euro, l’Olanda a 1.725, il Belgio a 1.658, la Francia a 1.603. A questo punto la classifica fa un salto in giù, di colpo, di oltre 500 euro: la Spagna passa da 1.125 a 1.167 euro, in Slovenia gli euro sono 1.074. Ancora giù con il Portogallo a 822, Malta a 792, la Grecia a 773, la Lituania a 730. Si arriva quindi all’ex aequo di Polonia ed Estonia con 654 euro, per poi arrivare alla Slovacchia a 646 e alla Croazia a 623. I tre in coda sono l’Ungheria con 541 euro, la Romania con 515 e, dato davvero rilevante, poco più di 300 euro in Bulgaria, 332 euro per l’esattezza il salario mensile.

Che poi alla fine quando si parla di salario è di politica che si parla: da noi, dove manca appunto ancora una disciplina chiara in materia, i nostri rappresentanti in Parlamento continuano a tirare la corda delle proposte e delle prese di posizione, ma senza mai voler arrivare in modo coeso a una soluzione normativa dentro i confini delle Camere. Chi porta avanti il dibattito politico? Il Movimento 5 Stelle incalza sull’urgenza di approvare subito la misura. Per Forza Italia la molla dovrebbe essere il collegamento tra produttività e salario, in ottica industriale. Sulla base delle classiche 40 ore settimanali, anche la senatrice Nunzia Catalfo si è fatta avanti da tempo con il disegno di legge a sua firma e col quale immagina un’asticella a 9 euro lordi che, tradotto su quel monte ore, vorrebbe dire poco meno di 1.550 euro. Il Pd è lo schieramento che sulle tempistiche forse esita di più: come a dire, sì facciamolo ma prima serve altro, non a caso si sono espressi definendolo una priorità di medio-lungo periodo.

L’effetto smart working sulle imprese

Il dibattito degli ultimi due anni, strozzato da pandemie e frenate, ha permesso di aggiungere una variabile che c’è da augurarsi diventi sempre più stabile anche in ottica salariale: lo smart working. Le crisi e le emergenze a catena in corso dal 2020 hanno innescato un’urgenza acceleratrice anche in Italia, per quanto finora senza effetti; è pur vero che restiamo il Paese dove le riforme richiedono anni di finto dibattito prima di arrivare a discutibili esiti che quasi mai hanno fatto il bene del Paese. Almeno dal punto di vista delle tasche dei lavoratori. Tasche che da noi variano di grandezza e profondità soprattutto in base a contrattazioni collettive di settore e, ancor di più, in base al ruolo che si riveste dentro le aziende.

L’Osservatorio JobPricing 2022 ben sintetizza la situazione: il differenziale medio salariale tra operai e impiegati raggiunge ben il 20%, a catena sui ruoli di vertice. Infatti, i dirigenti staccano i quadri con un 48% di busta paga in più; quadri che, a loro volta, guadagnano circa un 45% in più degli impiegati. Quello su cui imprese, politica e sindacati dovrebbero riflettere è che la contrattazione di secondo livello rivela sempre la sua spinta a trovare autonomamente una soluzione negoziale prima ancora che la contrattazione collettiva si attivi con tutta la sua macchina: vale anche in materie come lo smart working, i benefit o la produttività. Altro campo di riflessione dovrebbe essere strettamente collegato al piano della professionalità quando si parla di salario, più o meno minimo: se le figure più qualificate hanno trovato sempre più sponde di rappresentanza negli ultimi anni, chi si colloca nelle fasce lavorative più basse è stato invece dimenticato da tutti. Imprenditori e manager sono chiamati a non sottovalutare questa forbice di pensiero che nell’arco di pochi anni ha già spaccato la società e sta inesorabilmente alimentando a livello sociale la categoria dei lavori poveri.

Ed è qui che si innesta una riflessione sull’effetto boomerang che potrebbe avere il salario minimo su molte imprese, magari non capaci di sostenerlo in base al proprio potere di mercato e alla capacità o meno di potersi ricalibrare rispetto a settore e dimensioni. Il pericolo è quello di rischiare persino l’uscita di scena: una puntuale analisi del Collettivo Tortuga, giovani economisti molto attenti alle dinamiche del lavoro, mette sul banco dei settori a rischio intanto quello immobiliare e poi quello dei servizi di ristoro e di trasporto. Insomma, ambiti connotati tradizionalmente da professioni a basso valore aggiunto, altrettanto bassa produttività, numeri di impiego da addetti di massa.

Tornando alla crescita garantita perlopiù alle figure professionali più qualificate, lascio anche lo spunto su quanto sia sempre più anacronistico, in tempi di smart working e di snellimento del controllo dei lavoratori in nome di una valorizzazione del risultato rispetto al monte ore, parlare di premio di risultato o premio produzione in una logica solo di passiva redistribuzione dei margini aziendali piuttosto che come riconoscimento del lavoro svolto: ridiamo un senso alle parole, perché dietro le parole ci sono spesso meccanismi e logiche che vanno ripensate per restituire dignità e filiera di responsabilità. È tempo di caricarci un po’ tutti di una produttività intelligente. È tempo di dialogare di più dentro le imprese, a più livelli. Il salario minimo, alla fine, è uno dei tanti riflessi di come si intende il lavoro. Quasi sempre gli investimenti fatti male sono quelli non tarati prima sulle persone e sul contesto, ma solo sulle ambizioni esterne, sui bilanci e sugli obiettivi da raggiungere. Ecco: è proprio lì in mezzo che si dovrebbe ridare sostanza alla parola salario.

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