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Lavoro

I robot saremo (anche) noi

Altro che rubarci il lavoro, la vera scommessa per il futuro è avere tecnologie in grado di collaborare con l’uomo per renderlo più efficiente, ma anche per permettergli di svolgere attività pesanti con minore fatica, riducendo il rischio di infortuni

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Se ci fossero state mostrate immagini di robot che sanificavano stanze d’ospedale con i raggi UV, servivano caffè ai tavoli dei bar o di droni che consegnavano medicine soltanto sette mesi fa, avremmo istintivamente pensato a tutti quei report sulla sparizione del lavoro in un futuro dominato dalla tecnologia. I mesi di quarantena, però, hanno rovesciato molti giudizi e altrettanti pregiudizi. Ora queste immagini hanno un senso diverso. Non che non abbia senso riflettere sulla job disruption e sulla disoccupazione tecnologica, tutt’altro, però è evidente che quello tra uomo e macchina non è necessariamente uno scontro. A volte può essere un incontro.

Nel mondo del lavoro, ciò è osservabile già da tempo e poche cose incarnano questo nuovo paradigma come gli esoscheletri, strutture da indossare che rendono il lavoratore più forte e resistente. Immaginati da Robert Heinlein nel racconto Starship Troopers, del 1959, sono nati ufficialmente sei anni dopo, all’ombra del Pentagono, prodotti all’interno di progetti di ambito militare, come spesso accade con le grandi rivoluzioni tecnologiche. In un secondo momento, gli esoscheletri sono stati utilizzati in ambito sanitario, in particolar modo nella riabilitazione di alcuni pazienti, per poi entrare in fabbrica. Pioniere in questo campo fu Homayoon Kazerooni, professore di ingegneria a Berkeley, che nel 2004 creò Bleex (Berkeley Lower Extremity Exoskeleton), degli stivali da combattimento modificati e trasformati in una sorta di pantaloni collegati a una specie di colonna vertebrale che avrebbero aiutato l’operaio a trasportare carichi spaccaschiena come fossero un paio di quotidiani. Le prime applicazioni industriali, però, risalgono al 2014. Da allora, questa tecnologia si è diffusa con una certa velocità: indossano esoscheletri gli addetti alla catena di montaggio di alcuni impianti di Bmw, che già nel 2015 aveva cominciato a sperimentare un device prodotto in stampante 3D da un progetto dell’Università di Tecnologia di Monaco, proprio mentre l’Audi testava un wearable simile prodotto da Noonee e la Panasonic affidava un progetto analogo a una sua controllata, ActiveLink.

Esistono diverse tipologie di esoscheletri, a seconda della zona del corpo che vanno a rinforzare: arti superiori, inferiori, schiena, ginocchia o anche solo mani. Tendo, per esempio, è una società svedese che dal 2016 produce guanti che aiutano le persone paralizzate a prendere, tenere e posare un oggetto. La distinzione principale, però, passa per un piccolo motore: gli esoscheletri di tipo attivo ne possiedono uno (quelli di tipo passivo ne sono sprovvisti) e questo contribuisce ad aumentarne il boosting effect ma li porta su un terreno che, da un punto di vista giuridico, è ancora vergine, rallentandone la diffusione. Più in generale, a ostacolare un’adozione massiccia di una tecnologia che pure potrebbe prevenire l’insorgere di malattie muscoloscheletriche e diminuire l’impatto di mestieri fisicamente usuranti sul lavoratore, è la difficoltà per le aziende di sapere con certezza quanto un simile investimento sia sensato, cioè quanto un esoscheletro riduca la fatica e aumenti la produttività del singolo operaio. Questo fino a poche settimane fa, perché una partnership tutta italiana ha, di fatto, prodotto uno standard valutativo che consente questo tipo di misurazione. I risultati del progetto Eso- EAWS, nato da una collaborazione tra l’Università di Bologna, il Laboratorio di Ingegneria del sistema neuromuscolare del Politecnico di Torino, la Fondazione Ergo, Iuvo, società spin-off del Sant’Anna di Pisa e Comau, presentato lo scorso maggio, ha consentito il superamento di questa frontiera (vedi intervista).

Rimanendo nell’ambito della robotica, va segnalato il crescente interesse (e l’aumento dei relativi investimenti) per i cosiddetti cobot, termine che indica quegli androidi concepiti per affiancare e interagire con l’uomo sul posto di lavoro in tutta sicurezza, grazie a sensori che consentono al droide di calibrare la pressione degli arti meccanici e di evitare contatti e collisioni. Questo è un mercato che, secondo gli analisti di BIS Research, starebbe letteralmente per esplodere. Se nel 2019 valeva 580 milioni di dollari, nel 2024 potrebbe raggiungere i 9,3 miliardi.

Questo tipo di convivenza non si avrà soltanto nelle smart factory. L’uomo dovrà abituarsi a interagire con la macchina, che sia un robot o un’intelligenza artificiale, in quasi tutti gli ambiti, anche quelli che nulla hanno a che fare con le cosiddette 3 d, cioè relativi a occupazioni dirt, dull and deadly, in cui ci si sporca, ci si annoia o si rischia la vita. I robot sono già entrati negli ospedali, come ausilio per gli infermieri, e anche in sala operatoria, affiancando i chirurghi. Ma Big Data, AI, VR/AR, IoT e tutti gli altri acronimi dietro i quali si nascondono i driver di questa nuova rivoluzione industriale hanno il potenziale per scardinare qualsiasi professione. È esemplificativo, per esempio, che una delle aree in cui questa rivoluzione stia prendendo piede più velocemente sia quella delle risorse umane e del recruitment, dove già si usano algoritmi per analizzare profili social e candidature. Ma c’è molto di più. Textio, per esempio, è un software che è in grado di lavorare con autori in carne e ossa nella stesura delle job description. Si è notato, infatti, che spesso queste ultime tendono a essere evasive e fumose, finendo per attrarre candidati che nella maggior parte dei casi non sono adatti. L’utilizzo di questa intelligenza artificiale, che spiega come certe parole potrebbero venire intese, ha dato risultati sorprendenti: Procter&Gamble, per esempio, ha visto un aumento del 30% dei candidati qualificati. Nel turismo e, in particolar modo, nell’hotellerie, le cose stanno cambiando altrettanto rapidamente. Gli Studenti della Ecole hôtelière de Lausanne si stanno già abituando a lavorare con un’AI, l’assistente virtuale Amelia.

Enormi cambiamenti riguarderanno anche il giornalismo. Google, per esempio, attraverso la sua Google News Initiative sta organizzando corsi per spiegare ai giornalisti cosa sono AI e ML (Machine Learning) e come queste due tecnologie cambieranno necessariamente il loro lavoro. Coloro che vedono il bicchiere mezzo pieno e inneggiano all’avvento della digital workforce sostengono che questa consentirà agli umani di dedicarsi solo alle HVT (High Value Task). Secondo un report di Deloitte, nel rapporto tra uomo e macchina la substitution è solo uno dei tre esiti possibili, e nemmeno il più scontato, essendo gli altri due l’augmentation della prestazione lavorativa, come nel caso degli esoscheletri, o la collaboration. La scommessa è che l’avvento di quest’ultime possa ridisegnare il paesaggio socio-economico, migliorandolo. I più audaci parlano di un nuovo umanesimo digitale. Non ci vorrà molto per vedere se questa scommessa sarà vinta o persa.

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