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Quanto vale il marchio “Italia”?

Il made in Italy al microscopio, attraverso le società e i settori che hanno saputo diffondere l’idea che non ci sia “niente di meglio al mondo” su scala globale. Commentiamo la classifica italiana dei Best global brand con Jez Frampton, global ceo di Interbrand

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Gucci, presente. Prada, presente. Ferrari, presente. Ma grandi protagonisti dell’economia italiana da Fiat a Ferrero, passando per Indesit e Unicredit, mancano all’appello nella classifica dei marchi globali del Belpaese. Scontano strategie di branding troppo ristrette su alcuni mercati o scarse informazioni disponibili, oppure operano in condizioni di monopolio o sono sotto controllo pubblico. Un punto di partenza per comprendere cosa è e cosa potrebbe essere il made in Italy nel mondo è un’analisi critica dei fattori che ne frenano lo sviluppo. E chi è più indicato per svolgerla di Jez Framton, l’uomo alla guida di Interbrand, una società che si occupa di marchi fin dal 1974 e che ha stilato la lista delle dieci eccellenze italiane in termini di brand?

Alcune tra le più grandi aziende italiane, come Terna o Barilla, non compaiono nella classifica dei marchi globali del Belpaese, e nella lista dei leader mondiali sono solo quattro le realtà italiane. Qual è la ragione della scarsa competitività del made in Italy?

Prima di tutto io non direi che l’Italia è poco competitiva in termini di brand. Il fatto di avere quattro marchi globali è una performance fantastica. Vuol dire che ci sono più società capaci di creare brand che valgono, se ne viene stimato il valore come quello di un qualsiasi altro asset aziendale, più di 3,3 miliardi di dollari. La settimana scorsa ero in Malesia per presentare la lista delle dieci eccellenze locali e lì la domanda era: quanto tempo dovrà passare prima di avere anche un solo marchio nella classifica globale? E lo stesso mi è stato chiesto in Cina, in Tailandia e in moltissimi Paesi.

Ma i nostri concorrenti sono molto più presenti, a partire dalla Francia, che vanta otto marchi globali

È vero, ma la rappresentanza italiana nella classifica mondiale è qualcosa di cui andare orgogliosi. Per le aziende poi, è molto importante condividere il Paese di origine con organizzazioni che sono riuscite ad avere un impatto così forte su scala globale. E anche a livello locale, tutti e dieci i marchi che Interbrand indica come globali rispondono agli stessi criteri che valgono per la global league tranne che per il valore minimo ammesso (che a livello nazionale è un miliardo di euro, ndr). Questo dimostra che l’Italia ha un’ottima capacità di creare e gestire brand in tutto in mondo, da cui deriva anche un grande rispetto per il marchio made in Italy. La sfida, a questo punto, è conquistare la grande diffusione. I marchi globali italiani sono molto orientati alla moda e al lusso e hanno produzioni relativamente ridotte di veicoli, vestiti, accessori. Bisogna dimostrare di saper allargare l’offerta e dominare in più di un segmento di mercato.

Ha affermato che il made in Italy è molto “rispettato”. Quali sono le associazioni che genera a livello internazionale?

Un’associazione ovvia, ma al tempo stesso meravigliosa, è quella che lega l’Italia allo stile. Tutte le dieci aziende italiane più forti in termini di brand condividono un’idea di stile, funzionalità e lusso inteso come estensione della ricchezza. Tutte, con la sola eccezione di Pirelli, che – pur producendo pneumatici – è infinitamente più stilosa dei suoi concorrenti come Bridgestone. E se guardiamo ai brand italiani nella classifica globale, Gucci, Prada, Ferrari e Armani, è evidente come la forza del marchio Italia sia nella combinazione di stile e qualità in termini di valore reale e lusso.

I marchi a cui fa riferimento sembrano fare più leva su attributi di tipo emozionale piuttosto che funzionale. Ritiene che questa sia una strategia vincente?

Sono necessarie entrambe le tipologie di attributi. Il punto di partenza per creare un marchio è sempre avere un buon prodotto, poi la strategia del branding serve a rendere quel prodotto unico. Aziende come Armani sono riuscite con il loro stile a emozionare, a trasmettere la sensazione che non ci sia “niente di meglio al mondo” ed è questo ciò a cui si riduce, in fondo, un grande marchio. Hanno dimostrato di comprendere cosa serve a un marchio globale: fondamenta molto solide su base funzionale, a cui associare potenti attributi emozionali.

Molti top brand italiani si collocano nel comparto del lusso. Eppure l’Italia ha una solida tradizione e quote di mercato elevate in settori quali la nautica, l’alimentazione, la meccanica, le attrezzature sportive. Come mai questi comparti godono di una minore visibilità?

Effettivamente sono assenti marchi italiani in settori anche importanti come l’alimentare, l’Hi Tech o i servizi finanziari. I brand di aziende conosciute e forti come Unicredit, Indesit o Fiat non soddisfano ancora oggi i requisiti per entrare in classifica. Spesso è semplicemente perché non sono abbastanza globali, ma possiamo attenderci in futuro il loro ingresso nella lista. Anche perché l’idea associata all’Italia nel mondo non è solo lusso, ma piuttosto stile e un certo tipo di eleganza. Significa prodotti costruiti con cura e in qualche modo autentici, un concetto che può essere esteso a molti settori. L’alimentare, ad esempio: non conosco un solo Paese dove non è amata la cucina italiana. Marchi come Parmalat non sono globali solo perché usano nomi differenti nei diversi mercati ma potrebbero facilmente creare brand globali.

I top brand italiani valgono moltissimo, complessivamente 25,5 miliardi di euro, più del Pil di Paesi come il Costa Rica. Ma fino a che punto il made in Italy, inteso come una garanzia di qualità, può essere un valore aggiunto nella costruzione di un brand?

È una domanda che spesso ci pongono anche i nostri clienti: come stimare quello che chiamiamo “effetto del Paese d’origine”. Infatti, un Paese come l’Italia può innescare una serie di associazioni e di aspettative che apportano valore ai prodotti locali, ma fino a che punto? Interbrand studia i marchi in base alla loro attitudine a generare profitti e ad affermarsi in contesti competitivi. Ebbene, l’immagine un po’ stereotipata dell’Italia come terra di stile, passione e qualità della vita è molto interessante dal mio punto di vista e può aiutare molti brand ad avere successo, ma altri no. Il temperamento appassionato che contraddistingue gli italiani secondo il clichè è adatto a brand come Ferrari, Diesel e Dolce & Gabbana, ed è un ottimo attributo per molti marchi non attinenti al lusso. Ma può rendere più difficile competere in settori come i servizi finanziari o le assicurazioni, in cui è essenziale la sobrietà. Non è detto che questa situazione non possa cambiare: il successo di Santander nella finanza globale, ad esempio, proviene dalla Spagna, una terra che condivide con l’Italia un’immagine europea, calda e passionale.

I MARCHI CHE FANNO GRANDE L’ITALIA

Non solo lusso, è vero. Ma scorrendo la lista dei global brand italiani appare con forza l’immagine di un Paese che non riesce ad allontanarsi dal ruolo di mago dell’ago e filo, del cuoio, del gioiello. L’Italia che emerge detta le regole nel mondo dello stile, ma è assente dal salotto buono della finanza, inadeguata alle sfide dell’Hi Tech e incapace di imporre i suoi marchi su scala internazionale persino in settori forti come l’alimentare, la nautica o la meccanica. La lista include i brand con un valore economico superiore al miliardo di euro, almeno un terzo del fatturato realizzato all’estero e alta riconoscibilità presso il pubblico in almeno un Paese in ogni macroarea (Europa, Nord-America, Sud-America, Asia-Pacifico). Inoltre il brand non deve essere monopolistico, a controllo statale o non-profit. Soddisfano queste condizioni i quattro campioni presenti anche nella classifica internazionale: Gucci (6,3 miliardi di euro), Prada (2,8), Ferrari (2,7) e Armani (2,7). Segue Bulgari (2,6), che regge nonostante le difficoltà economiche dei suoi principali mercati di sbocco (Usa, Giappone e Italia). Dolce & Gabbana (2,2) si classifica sesto, grazie a strategie di branding all’avanguardia come la parternership con Motorola o il lancio del ristorante Gold a Milano. Poi arrivano Diesel (1,9), che ha festeggiato i suoi primi 30 anni con eventi in 17 metropoli, e Geox (1,6), che sfiora quota 900 negozi. Chiudono la lista Pirelli (1,5), forte dello slogan «La potenza è nulla senza controllo» e Benetton (1,1) che fa la parte del leone in India, Europa dell’Est e America Latina. La connotazione familiare delle imprese si conferma croce e delizia dell’Italia: otto marchi su dieci portano il nome del loro inventore, e anche i due residui (Diesel e Geox) sono legatissimi all’immagine di Renzo Rosso e Mario Moretti Polegato.

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Jez Frampton è chief executive officer del Gruppo Interbrand. Frampton è membro di importanti associazioni tra cui la Marketing Society,il Chartered Instituteof Marketing, la Market Research Society, la Design Business Association, e l’Institute of Directors