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Cmo club, il “circolo Bilderberg” del marketing

Negli Stati Uniti riunisce 750 professionisti di altrettanti top brand, che mettono in comune esperienze e best practice, oltre – attraverso un vero e proprio programma di valutazione – a giudizi su agenzie e consulenti al servizio dei loro dipartimenti. C’è già chi teme il rischio di un inquinamento del libero mercato. E non manca chi vuol provare a fare qualcosa di simile in Italia…

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Bisogna dire che siamo rimasti un po’ spiazzati anche noi quando abbiamo letto che i commentatori di Advertising Age, uno dei punti di riferimento della stampa anglosassone dedicata al marketing, mostravano qualche perplessità rispetto al nuovo Vendor rating program lanciato qualche settimana fa dal Cmo club. In primo luogo, perché negli Stati Uniti, la patria di questa disciplina, sono abituati a vederne di cotte e di crude. In secondo luogo, perché evidentemente questo programma sta dando i suoi frutti, e soprattutto sta coinvolgendo sempre più professionisti. Tanti da impensierire gli addetti ai lavori. Ma andiamo con ordine. Cominciamo col spiegare cos’è il Cmo club. Si tratta di un’associazione fondata nel 2007 da Pete Krainik, veterano del marketing a stelle strisce con un passato in Avaya, Doubleclick e Siebel, che partendo da sei simpatizzanti è arrivata a contare oggi più di 750 iscritti. Non parliamo di pesci piccoli, manager frustrati dalla vita d’ufficio che si incontrano di tanto in tanto per una cena o una convention durante le quali ci si scambiano i biglietti da visita e le foto di famiglia, bensì di una community alla quale aderiscono i chief marketing officer di aziende del calibro di Hewlett-Packard, Gamestop, PepsiCo, Four Seasons, Shell e molti altri.

Fino a poco tempo fa gli incontri, i convegni e le conversazioni, tenute anche on line, servivano a orientare idee e strategie – perché no, a rassicurare: uno dei motti del club è “non sei più solo” – in un contesto confuso e magmatico come quello creato dall’esplosione del Web 2.0, dei social media e della multicanalità. Le cose si sono fatte più serie quando all’inizio del 2013 è stato lanciato un vero e proprio programma di valutazione dei vendor. Ovvero dei fornitori dei chief marketing officer. Ovvero di agenzie, centri media e consulenti strategici, che ora vengono valutati attraverso un questionario di 15 domande disponibile sulla piattaforma on line accessibile per i soli iscritti al club. Cosa emergerà da queste indagini, quali saranno i top of the pops e quali invece i collaboratori esterni da cui è meglio stare alla larga? Nessuno lo sa, se non per l’appunto gli appartenenti a questa specie di società segreta del marketing.

Business People ha contattato Pete Krainik all’indomani di un importante summit del Cmo club che si è tenuto a New York lo scorso 11 aprile, per chiedergli qualche dettaglio in più rispetto a come vanno le cose all’interno della sua creatura. Una delle prime questioni da dirimere è, per l’appunto, se questo ormai famigerato programma di valutazione può in qualche modo influire sulle dinamiche del comparto, danneggiando per esempio la reputazione di un fornitore attraverso l’utilizzo di uno strumento “a porte chiuse” in un mercato che invece esige sempre più trasparenza, a tutti i livelli. A farlo notare, per l’appunto, è stato Advertising Age, che sottolineava come la soggettività (leggasi: pregiudizio) dei partecipanti all’audit possa mettere in ombra le vere competenze dei fornitori, distorcendo l’equilibrio che si sta gradualmente formando tra domanda e offerta di servizi ad alto contenuto di innovazione, e creando quindi rischiose concentrazioni. La riservatezza e l’anonimato dei dati, insieme alla garanzia che i risultati delle indagini rimarranno all’interno del Cmo club dovrebbero tranquillizzare gli addetti ai lavori. Evidentemente non tutti la pensano così. Krainik, ça va sans dire, non ha dubbi al riguardo: «Non sussiste alcun problema di mancanza di trasparenza», dice. «Il club serve a condividere esperienze e ad aiutarsi reciprocamente in un ambiente libero e privo di rischi. I chief marketing officer costruiscono relazioni trasparenti a partire dalle loro sfide e dalle loro idee. Direi piuttosto che la ragione per cui il club sta esplodendo è da ricercarsi proprio nella sicurezza che i Cmo sentono di avere in questo contesto». Krainik spiega che il programma di valutazione è stato ideato per permettere ai membri del club di raccomandare (il verbo raccomandare va qui inteso all’anglosassone, come succede su Linkedin, per intenderci) fornitori o partner ai propri colleghi. «Le aree di maggiore interesse sono le agenzie specializzate sul mobile, le società di consulenza strategica che lavorano sui social media e i professionisti che ci aiutano a focalizzarci sulla centralità del cliente attraverso l’analisi dei volumi e delle fonti dei dati. Attualmente, ciò che conta di più per il Cmo sono le expertise legate alle attività strategiche e alla distribuzione».

Su questi e altri temi si sono confrontati i circa cento marketing manager che si sono incontrati al summit di New York. Ma le sfide che riguardano questa funzione aziendale sempre più delicata toccano aspetti che fino a poco tempo fa erano considerati estranei alle normali attività e conoscenze del Cmo. Ne abbiamo approfittato per chiedere a Krainik cosa si sono detti i top manager in questa specie di circolo Bilderberg del marketing e cosa vuol dire essere un Cmo in questo turbolento 2013. «In primo luogo è nata l’esigenza di portare il concetto di brand oltre i confini del proprio dipartimento», precisa Krainik. «I Cmo si stanno concentrando sempre di più sulle aree esterne ai propri team per ispirare, educare e proporre nuovi standard per migliorare l’esperienza e il coinvolgimento del consumatore lungo tutta l’organizzazione aziendale. Oggi, grazie ai social media, ciascun impiegato e stakeholder diventa un’estensione dell’impresa. Ma la sfida è anche riuscire a conquistarsi una certa credibilità con i loro Ceo e con il board in generale: i responsabili marketing hanno bisogno che i loro capi diano la propria disponibilità ad assisterli sul piano finanziario e strategico, per aiutarli o per far loro strada nella gestione delle attività necessarie alla crescita». Secondo Pete Krainik la prima ragione per cui molti responsabili marketing finiscono di questi tempi per lasciare la propria posizione sta nella relazione problematica con il proprio Ceo.

Crescere nell’era di Internet e dei mercati globali significa prima di ogni altra cosa controllare i flussi informativi, saperne interpretare i dati che li compongono e utilizzarli in maniera appropriata per delineare strategie e tattiche. «Le competenze richiesteci oggi vanno ben oltre la gestione di una campagna», sostiene il fondatore del Cmo club. «Dobbiamo imparare a incanalare i Big data e sfruttare gli Analytics per comprendere quali sono le reali opportunità di crescita e quali i nuovi segmenti per generare ricavi. Senza dimenticare il crescente peso del mobile, dei social media e del digitale in generale. A impensierire i nostri associati sono soprattutto il planning strategico e la differenziazione del brand attraverso le nuove piattaforme e i device di ultima generazione». Anche perché è proprio da queste piattaforme che passa la fidelizzazione dei clienti a costo zero e, tema ancora più importante, la creazione di testimonial, sostenitori («advocate» è il termine usato da Pete Krainik) pronti a metterci la faccia per supportare un brand o un prodotto nella sconfinata arena dei social media.«L’ultimo aspetto che mi sento di evidenziare», conclude Krainik, «è quello dell’innovazione. Ormai il Cmo ha il compito di portare innovazione all’interno dell’organizzazione. Quasi tutte le nostre cene vertono sulla sempre più sentita necessità di proporre nuove idee per generare non solo prodotti o servizi, ma vere infrastrutture aziendali, a partire dai programmi di incentivazione e di supporto alle idee coraggiose». Attualmente la rete si sta espandendo anche oltre i confini degli Stati Uniti, attirando l’interesse di marketing manager provenienti da altri mercati. C’è da chiedersi se i responsabili delle (poche) multinazionali italiane possano in qualche modo essersi già avvicinati al Cmo club. Krainik risponde sibillino: «Ci sono diversi Cmo stranieri intrigati dalla nostra idea. Anche qualche italiano».

INTERVISTA – Quasi quasi lo facciamo anche noi

Franco Giacomazzi docente di marketing industriale al Politecnico di Milano e presidente di Aism (Associazione italiana marketing)