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Il grande business del cioccolato

Italia ed Europa sono protagoniste del mercato internazionale, ma se durante la pandemia le vendite hanno fatto registrare buoni risultati, non mancano incognite sul fronte dell’approvvigionamento di cacao

Fondente, bianco o al latte. Acquistato dagli scaffali della gdo o in laboratori artigianali. Adatto a ogni occasione. E senza al­cun target di età. È il cioccolato, guilty pleasure per eccellenza e bene di consumo scelto da milioni di persone ogni giorno. An­che in pandemia.

A definire l’andamento complessivo del mercato italiano del cioccolato come «soddisfacente» nel 2020 è l’Unione Italia­na Food, la più grande associazione in Europa che raggruppa aziende produttrici di beni alimentari. In crescita, rispetto al 2019, sono stati infatti sia il fatturato complessivo che la quan­tità di prodotti finiti: oltre 4 miliardi e mezzo di euro (+0,3%) per un totale di 344 mila tonnellate (+2,2%). Due i segmenti merceologici che hanno trainato il mercato: da un lato tavolet­te, barrette e blocchi di cioccolato, che hanno fatto registrare un +6% in termini di volume e un +7,4% in fatturato (552 milioni di euro); dall’altro le creme spalmabili, rispetto alle quali al +6% in volume è corrisposto un fatturato di oltre 366 milioni di euro (+15.2% sul 2019). Gli effetti negativi della pandemia emergo­no, invece, con chiarezza se si considera la sola domanda deri­vante dal mondo professionale dell’industria dolciaria: la chiu­sura prolungata di bar, ristoranti, pasticcerie e attività ricettive ha determinato una flessione nel fatturato di semilavorati di ca­cao, registrando una decrescita prossima al 3% e passando, in un solo anno, da un valore di oltre 715 milioni di euro a poco più di 695 milioni.

Dal mercato nazionale a quello globale: la tendenza è la medesi­ma. Prima di tutto nei numeri. Nell’anno più difficile per l’eco­nomia il fatturato è infatti aumentato, passando dai 130 miliar­di del 2019 ai 140 del 2020. Entro il 2028 le stime prevedono un volume d’affari da 200 miliardi di dollari, con un tasso compo­sto di crescita annua compreso tra il 4,6% e il 4,8%.

Nell’offerta di uno tra i beni di consumo più desiderati al mon­do, centrale è il ruolo dell’Europa che, nel 2020, secondo l’a­genzia americana di market intelligence Fior Markets, detene­va la maggiore quota (45%) del mercato globale. Ed è proprio il mercato europeo a confermarsi come quello di scambio favo­rito anche per l’Italia, assorbendo, lo scorso anno, più del 70% di volume e fatturato delle esportazioni italiane di cioccolato e prodotti a base di cacao. Per un valore di oltre 1 miliardo e 200 mila euro. In testa alla classifica dei principali Paesi destinatari dell’export italiano si collocano Francia e Germania – con una quota di mercato rispettivamente pari al 18,4% e 8,8% del to­tale. Seguono Regno Unito, Spagna e Belgio. Nel restante 55% sono invece ricompresi tutti gli altri Paesi al di fuori dell’area europea, tra cui spiccano Stati Uniti, Russia e Israele. E se nei primi due casi le variazioni in quantità e fatturato sono state precedute da segno negativo, il trend del mercato israeliano si è invece confermato anche nel 2020 in crescita. Le esportazio­ni italiane verso Israele – già «brillanti» nel 2019, come sottoli­nea l’Unione Italiana Food – hanno infatti raggiunto i 46 milio­ni di euro di valore, aumentando di quasi il 9% rispetto all’anno precedente.

Non è quindi un caso che, tra i principali player del mercato, sia proprio l’Europa a imporsi come leading country. Considera­ti i primi cinque operatori del mercato europeo, più della metà – secondo l’indagine realizzata dalla società indiana di analisi di mercato Mordor Intelligence – provengono dal vecchio con­tinente. In testa alla classifica si colloca la società svizzera Ne­stlè, cui seguono Mondelez e Mars (Stati Uniti), Ferrero (Italia), Lindt e Sprungli (Svizzera). Gli stessi player che occupano una posizione dominante non solo nel mercato globale del cioccolato, ma anche nell’intera industria dolciaria internazionale: Nestlé, con una stima di 20 miliardi di fatturato e Ferrero, con 13 miliar­di, rappresentano infatti la prima e seconda posizione della 2021 Top global Candy Companies redatta da Candy Industry.

Numeri e dati che hanno alla base radici solide. Quelle delle piante di cacao, da cui tutto nasce. Sono infatti le fave di cacao, i semi, a rappresentare il primo fattore preso in considerazione nella determinazione del prezzo del prodotto finale. Come funziona il mercato viene spiegato dall’International Cocoa Organization, organizzazione intergovernativa nata nel ‘73 cui aderiscono 51 Stati, che rappresentano la quasi totalità dei numeri dell’export e dell’import mondiale. Quasi tutto il cacao che proviene dai Paesi di coltivazione viene contrattato nei mercati fisici. La costante è l’assenza, per agricoltori e piccoli produttori, della capacità di influire nella determinazione del prezzo. Una circostanza che si riflette anche nella suddivisione del guadagno finale. Secondo il World Economic Forum, mentre produttori e commercianti finali otterrebbero, sommati, quasi l’80% dei guadagni derivanti dalle vendite dei prodotti a base di cacao, ai coltivatori spetterebbe non più del 6,6%. A fronte di salari quotidiani che spesso non superano un dollaro. «La frammentarietà di produttori non aiuta ad agire con muscolarità nella trattativa con questi enormi player internazionali. Che sono coloro che controllano il consumo del cacao e ne stabiliscono il prezzo alla borsa di Londra o di New York», spiega Eugenio Guarducci, presidente di Eurochocolate. Ed è proprio nelle Borse delle capitali finanziarie di Regno Unito e Stati Uniti che si scambiano i contratti future sul cioccolato. L’impegno di chi sottoscrive il contratto è uno: dare o prendere in consegna, in un certo momento futuro, una determinata quantità di fave di cacao. Con l’obiettivo non di assicurarsi una certa dose del bene, ma di ridurre i rischi derivanti da future variazioni di prezzo.

A influire sulla determinazione del prezzo del caco sono vari fattori. La domanda, prima di tutto; ma anche le condizioni socioeconomiche dei Paesi di coltivazione. E, ora più che mai, la crisi climatica. Il caso più eclatante è quello africano dove, negli Stati della Costa d’Avorio e del Ghana, si produce il 70% delle fave di cacao. È in queste zone equatoriali che si realizzano le condizioni ottimali per la crescita delle piante di cacao, condizioni che potrebbero velocemente mutare a causa dell’innalzamento delle temperature dovuto a un progressivo aumento di emissioni di anidride carbonica e alle deforestazioni. Un allarme lanciato, già nel 2014, dall’Intergovernmental Panel on Climate Change nel report Climate Change 2014: Impacts, Adaptation, and Vulnerability. E che prevedeva, entro il 2050, un aumento di temperatura superiore a 2 gradi. L’equivalente di una diffusa siccità e della progressiva riduzione della terra coltivabile. Rendendo il cacao, e quindi il cioccolato, un prodotto che potrebbe perdere la sua principale caratteristica: quella dell’universalità.

*Articolo pubblicato su Business People di dicembre 2021

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