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Economia

Allarme Golden Power

Strumento da sempre poco utilizzato dall’Italia per proteggere le proprie imprese dalle acquisizioni estere, finalmente è stato sfruttato con decisione dal governo Draghi. Benché utile, però, questo “potere” non basta. C’è molto altro che uno Stato può (e deve) fare per difendersi

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«Sono d’accordo con Giorgetti, il Golden Power è uno strumento del governo per evitare la cessione di asset strategici a potenze straniere, va usato. Quello sui semiconduttori è stato un uso di buon senso in questa situazione. È un settore strategico, ce ne sono altri». Così il Primo ministro Mario Draghi, lo scorso aprile, esplicitava il veto posto dal governo italiano alla vendita del 70% della Lpe di Baranzate (Milano) alla cinese Shenzhen Investment Holdings e, allo stesso tempo, marcava un cambio di paradigma non da poco. Anche il corteggiamento del China Faw Group Co. a Iveco s’infranse contro un muro.

Lontani sono i tempi in cui il Primo ministro Matteo Renzi gonfiava il petto parlando dell’ingresso di Pechino in Eni ed Enel con il plauso della grande stampa. Pochissime le voci, se non critiche, perlomeno perplesse. «Siamo terreno di conquista… A scorrere l’elenco delle grandi società che negli ultimi anni sono passate sotto il controllo di gruppi non italiani vengono i brividi», scrisse la Cgil all’indomani del passaggio di Pirelli nelle mani della China National Chemical Corporation.

Lo shock pandemico, però, ha fatto tornare lo Stato protagonista in economia e una diretta conseguenza di questo ritorno è il risveglio di poteri che esistevano già, ma erano rimasti dormienti. Ed ecco allora il Golden Power, cioè quel potere speciale che permette al governo di bloccare operazioni commerciali e finanziarie pericolose per gli interessi italiani, soprattutto quando queste sono portate avanti da gruppi che in realtà sono la lunga mano di un altro Paese. Fu istituito nel 2012 anche se poco se n’è parlato, perché poco vi si è fatto ricorso. Le cose sono cambiate l’anno scorso, quando il governo Conte, ad aprile, varava il decreto numero 23, che ampliava di fatto il perimetro di applicazione di questo potere – prima limitato strettamente al campo della difesa e della sicurezza – e lo estendeva ai settori alimentare, assicurativo, finanziario, sanitario e della cybersecurity. Altri due Dpcm del dicembre 2020 definivano poi in maniera ancora più minuziosa gli ambiti di applicazione, soprattutto in tema di trasporti e nuove tecnologie, includendo A.I., robotica, semiconduttori, biotecnologie, senza dimenticare le infrastrutture critiche, come quelle per l’approvvigionamento idrico.

Un processo parallelo è avvenuto in quasi tutto il mondo, e soprattutto nell’Unione europea, che nella competizione tecnologica è il vaso di coccio tra i vasi di ferro di Cina e Stati Uniti. Sempre nell’aprile 2020, infatti, in Germania veniva approvata una legge che dava all’esecutivo il potere di bloccare «interferenze potenziali» e che abbassava la soglia di rischio, cioè la percentuale di capitale azionario in mano a un player straniero oltre la quale scatta l’allarme rosso. A pesare è stato il ricordo dell’acquisizione di Kuka Robotics, gioiellino tedesco passato nel 2016 al cinese Midea Group per 4,5 miliardi di euro, nonostante Berlino avesse provato a sventare l’operazione. La lezione fu imparata. Il primo embrione di legge anti-takeover fu varato nel 2017 e servì per evitare, l’anno seguente, la vendita della Leifeld Metal Spinning AG e di Aixtron al Yantai Taihai Group e al Zhejiang Geely Holding Group.

In Francia, poi, questa sensibilità è stata sempre forte e condivisa da tutta la classe politica, e Parigi ha dimostrato di avere il grilletto facile. Gli italiani ricordano, per esempio, il veto posto dai francesi all’acquisizione dei cantieri della Stx da parte di Fincantieri. Più recentemente, si è parlato del loro “no” al tentativo del retailer canadese Couche-Tard di comprare Carrefour, con il Financial Times che lo bollava come esempio di «nazionalismo corporate». Questi poteri speciali esistono in tutti i Paesi industrialmente avanzati. Ciò che cambia è la propensione a usarli. Se si guarda alle vicende degli ultimi 30 anni, si vedrà che l’Italia è stata oggetto di una penetrazione di capitali stranieri, anche da Stati comunitari, molto più dei suoi competitor. Questo perché il Golden Power è importante, ma non decisivo. Esistono altri strumenti altrettanto efficaci per mettere al sicuro la propria argenteria. In Francia e Germania, per esempio, lo Stato ha mantenuto la sua presa su numerose aziende. Mentre in Italia si privatizzava tutto il privatizzabile, altrove si seguivano altre strade. E così Berlino ha ancora un controllo totale su Deutsche Bahn AG (ferrovie), Rag AG (che controlla la più grande miniera di carbone) e quote importanti in Commertzbank, Deutsche Telecom, Hapag Lloyd (trasporto marittimo e movimentazione container), Volkswagen, senza contare una delle sue armi segrete, la banca KfW (vedi intervista). E questo senza contare le società e le banche partecipate dai lander.

La presenza di strutture statali nell’assetto societario di un gruppo ha un peso. L’esempio più evidente è l’acquisizione travestita da fusione di Fca a opera di Peugeot e la nascita del gruppo Stellantis, in cui Parigi è presente, ma Roma no. Un timore molto diffuso è che questo potrebbe pesare nel momento stesso in cui il nuovo vertice si troverà a decidere del destino delle fabbriche e, quindi, dell’intera filiera. L’automotive è un settore strategico, se si considera quale densità di ricerca industriale abbia e le sue ricadute sull’economia di un Paese, ma l’Italia potrebbe non essere nella posizione di difenderlo, con conseguenze economiche, industriali e occupazionali molto gravi.

Il Golden Power, quindi, è uno strumento, ma da solo non fa miracoli. Bisogna saperlo e volerlo usare. Nel Belpaese, si è compreso tardi che i cosiddetti Ide, gli investimenti diretti esteri, sono una risorsa ma in alcuni casi possono diventare una minaccia. E questo è avvenuto quando è cambiata la percezione della Cina e del suo attivismo economico. Poi, nel marzo 2020, dopo la presunta gaffe della presidente della Bce Christine Lagarde e gli strani movimenti di Borsa che hanno messo in allarme Copasir e Consob, si è compreso che anche i partner comunitari vanno monitorati. Alla buon’ora. Credit Agricole intanto ha acquisito anche Creval, costruendo il sesto polo bancario italiano. L’ultima di una serie di mosse con cui la Francia è entrata nell’economia italiana come un coltello nel burro, anche in alcuni settori strategici come quello bancario e assicurativo e nelle telecomunicazioni. Il contrario non sarebbe stato concepibile, perché Parigi ha una politica industriale inserita in una visione strategica che poggia sul concetto di interesse nazionale. L’Italia non ha niente di tutto questo.


Articolo pubblicato su Business People di giugno 2021

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Al centro, il primo ministro italiano, Mario Draghi; a sinistra il presidente cinese Xi Jinping e, a destra, quello francese, Emmanuel Macron. Lo scorso aprile Draghi ha sottolineato come il Golden Power possa essere uno strumento per impedire la cessione di asset strategici ad altre potenze straniere (foto © Getty Images)