L’integrazione vien mangiando

Le culture? Per conoscerle bisogna… assaggiarle. È questa l’idea alla base de La pentola dei migranti, originale start up ispirata da un libro di Carin McDonald Puzie e sostenuta da Altavia Italia

Galeotto fu Expo 2015 di Milano. È lì, infatti, che Paolo Mamo, presidente e a.d. di Altavia Italia, si è imbattuto in Carin McDonald Puzie, giunta all’Esposizione Universale per promuovere la start up La pentola dei migranti. Il tempo di una chiacchierata e tra i due è subito scattata l’intesa – imprenditoriale – che ha poi portato la società di comunicazione a sostenere attivamente il progetto. A conquistare Mamo è stato l’originalità della start up, la cui stessa genesi è molto singolare: La pentola dei migranti altro non è che la declinazione in chiave imprenditoriale del libro L’integrazione comincia con il gusto, scritto da Carin McDonal Puzie (Corrado Tedeschi Editore). Dopo aver proposto un melting pot culinario in 60 ricette multietniche, dove gli ingredienti mediterranei si uniscono ai sapori più esotici, Carin McDonal Puzie ha deciso di passare dalle parole ai fatti dando vita a un’impresa 100% femminile e composta da immigrate, il cui obiettivo è promuovere l’integrazione culturale attraverso la cucina. Per l’esattezza, con lo strumento dello street food: un campo dove a sua volta Altavia Italia ha maturato una grande esperienza. La società milanese, infatti, è nota per aver aperto ai cittadini del capoluogo lombardo le porte della sua sede consentendo ogni giorno, a chiunque lo desideri, di recarsi a mangiare nei cortili dell’azienda presso i diversi truck food ospitati. In quest’avventura con La pentola dei migranti, è poi entrata anche Positive Planet, storico partner di Altavia Italia per i progetti corporate social responsability. Se Altavia cura l’aspetto della comunicazione, dunque, Positive Planet si occupa del business plan. Insieme sono prossimi a lanciare una piattaforma di crowfoundig, per raccoglie il capitale necessario a dare vita a questa originale società multietnica.

Cosa vi ha spinto a scommettere su un progetto indubbiamente originale, ma anche molto complesso da comunicare, come La pentola dei migranti?Da sempre siamo interessati a promuovere e sostenere le iniziative sul territorio il cui fine è mettere in relazione mondi diversi. Fin da subito mi è piaciuta molto l’idea di Carin di amalgamare gli ingredienti di altre culture con la cucina mediterranea, dando vita a ricette originali: è un modo concreto e piacevole per promuovere gli scambi sociali. Credo davvero che l’integrazione possa cominciare dal gusto, come titola il suo libro.

Vi siete però presi anche una bella gatta da pelare: potrebbe non essere facile promuovere il progetto, visto le attuali resistenze all’accoglienza e all’occupazione dei migranti in Italia.Bisogna chiarire il fatto che queste resistenze hanno poco senso. Come Altavia Italia ci stiamo impegnando per promuovere la visione di Positive Planet: in materia di integrazione, il fondatore Jacques Attali sostiene che «la più intelligente forma di egoismo è l’altruismo». Fatichiamo, infatti, a immaginare un contesto di sviluppo dove solo alcuni crescono, magari a scapito di altri. Certo, è esattamente quello che avviene in alcuni luoghi del mondo, ma alla fine il mercato che si crea è debole: nascono cattedrali nel deserto, che non necessariamente generano profitto diffuso e dunque non giovano a nessuno.

Qual è la somma che dovete raccogliere per trasformare il progetto in realtà?Tra i 45 mila ai 65 mila euro. Stiamo lavorando per individuare le formule più efficaci di raccolta ma la cifra sembra essere del tutto abbordabile. Lanceremo il crowfunding non appena la start up si costituirà in cooperativa (al momento di andare in stampa è in corso la finalizzazione, ndr). È realistico pensare che la raccolta fondi terminerà subito dopo l’estate.

Dopodiché cosa succederà?L’idea è di dare vita a un’Apecar per portare in giro le ricette de La pentola dei migranti, facendo conoscere questa realtà in modo smart a tutto il territorio. L’Apecar sarà anche presente ogni settimana, a rotazione, nei nostri cortili, dove allestiamo lo street food per dipendenti e cittadini. Ci piace molto questa idea di assaggiare i piatti per avvicinarsi a un’altra cultura. In questo senso devo dire che Milano è molto avanti, perché è stata capace di integrare flussi alimentari, tradizioni e abitudini diverse più di ogni altra città italiana.

Il food è sicuramente un vettore di aggregazione sociale ma, vista la vastità di proposte, è davvero il cavallo vincente su cui puntare dal punto di vista commerciale?Prendiamo proprio il caso di Milano: è un ristorante a cielo aperto, per via delle numerose tipologie di locali presenti. Eppure, i ristoratori falliscono tendenzialmente meno e la qualità dell’offerta è aumentata. Inoltre credo che se il rilancio del Paese passerà davvero attraverso la valorizzazione delle nostre eccellenze, allora bisogna annoverare tra queste anche la qualità delle materie prime alimentari e la nostra cucina senza paragoni.

Si parla tanto di imprenditorialità femminile, eppure continua a rimanere una realtà poco diffusa. Come se lo spiega?Credo che sia un problema culturale e di potere. Da parte degli uomini, c’è poca propensione a lasciare il potere conquistato in millenni. Al contempo le donne appaiono meno ambiziose, peccando di troppa umiltà. Tuttavia l’approccio delle donne è meno egoico: sono più brave a fare squadra e non a caso danno vita a molte start up. Per esempio, nei Paesi in via di sviluppo, sono le donne ad aggiudicarsi la maggior parte dei prestito d’onore previsti da Positive Planet.

© Riproduzione riservata