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Attualità

Muhammad Ali: l’uomo e l’atleta

Quest’anno il pugile più forte di tutti i tempi avrebbe spento 80 candeline. Un’occasione per ricordarne la grandezza non solo sul ring, ma anche nell’impegno per i diritti civili

architecture-alternativo Nel 1966 Muhammad Ali mette a tappeto lo sfidante Cleveland Williams nel terzo round della lotta per il titolo al Dome Stadium di Houston © GettyImages

Feroce sul ring, pacifista nel cuore. Chissà che cosa avrebbe avuto da dire in questi giorni difficili del 2022, l’anno del suo 80esimo compleanno, Muhammad Ali. Di certo, non sarebbero state parole banali, mentre quello che è stato uno dei suoi tanti eredi coi guantoni, l’ucraino Vitali Klitschko, scendeva sul campo di battaglia per difendere la sua città, Kiev, capitale dell’Ucraina. Nato a Louisville, in Kentucky, come Cassius Clay, assunse il nome islamico nel 1964 dopo la sua conversione. Era già diventato famoso proprio in Italia, a Roma, conquistando l’oro olimpico nei mediomassimi ai Giochi del 1960 a 18 anni. E anche da questo punto di vista, il nome di Ali resta di grande attualità pensando che il pugilato potrebbe uscire dal programma a cinque cerchi proprio a partire dalle Olimpiadi americane di Los Angeles 2028 per i «seri problemi di governance, trasparenza e sostenibilità finanziaria », come ha denunciato il presidente del Cio, Thomas Bach. Un paradosso ricordando il pugile ferito, piegato ma non battuto dal Parkinson, che fu il simbolo planetario dell’ultima edizione dei Giochi in America, quella di Atlanta nel 1996, inaugurata proprio da Ali come ultimo tedoforo.

Il campione alla Howard University per un raduno sul Black power nel ‘67 © GettyImages

È fin troppo facile ricordare i suoi successi sul ring: basta usare l’espressione “ha vinto tutto”. Letteralmente. Avviato alla boxe da un poliziotto di origini irlandesi, è stato campione del mondo per i pesi massimi dal 1964 al 1967, dal 1974 al 1978. Alcuni dei suoi incontri sono passati alla storia dello sport, a partire da quello più veloce terminato con un solo pugno: “The phantom punch”, il pugno fantasma, un solo colpo che gli bastò per sconfiggere per la seconda volta Sonny Liston (Lewistone, 25 maggio 1965), il campione cui Cassius Clay aveva strappato a sorpresa la corona dei massimi l’anno precedente. La sua strategia di combattimento? È leggendaria: «Vola come una farfalla, pungi come un’ape».Dopo quell’incontro il pugile aveva annunciato la sua conversione all’Islam e l’adesione alla Nation of Islam (Noi) di Elijah Muhammad, cambiando il suo nome in Muhammad Ali e iniziando una lunga lotta contro la segregazione razziale. Fu, dunque, il primo campione a caratterizzare la sua carriera sportiva con l’impegno politico e valoriale, un esempio modernissimo per gli atleti “impegnati” di oggi: «Cassius Clay è un nome da schiavo. Io non l’ho scelto e non lo voglio. Io sono Muhammad Ali, un nome libero. Vuol dire amato da Dio. Voglio che la gente lo usi quando mi parla e parla di me», disse scandalizzando l’America. E non sarebbe stata l’ultima volta.

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Mentre continuava a difendere il suo titolo per otto volte, riuscendo anche a riunificare la corona Wbc con quella Wba divenendo così il re incontrastato dei pesi massimi, Ali continuava nella sua lotta per i diritti civili. L’apice dello scontro con la società a stelle e strisce, che lo idolatrava sul ring e lo trattava da diverso nella vita di tutti i giorni, arrivò nel 1967 con la chiamata alle armi per la Guerra in Vietnam: «I Vietcong non mi hanno mai chiamato “negro”, non mi hanno mai linciato, non mi hanno mai attaccato con i cani, non mi hanno mai privato della mia nazionalità, stuprato o ucciso mia madre e mio padre. Sparargli per cosa? Come posso sparare a quelle povere persone? Allora portatemi in galera», fu il suo modo per dichiararsi renitente alla leva. Un discorso velenoso per le coscienze quanto il trash talking con cui il pugile provocava, innervosiva e spaventava i suoi avversari prima e durante i match. Fu arrestato e privato del titolo, ma soprattutto del ring finché non riuscì a ottenere l’annullamento della condanna nel 1971.

Da icona nella controcultura degli anni Sessanta, Ali poté tornare a fare quello che gli riusciva meglio, il pugile. Il rientro non fu facile. Avvenne l’8 marzo 1971, al Madison Square Garden di New York nell’“incontro del secolo”: 15 durissime riprese che ai punti premiarono Joe Frazier erede della corona durante la sua assenza forzata. Un’amarezza che Ali avrebbe cancellato solo tre anni dopo – e dopo un’altra dolorosa serata contro Ken Norton – nel 1974. Battuto Frazier, Ali era finalmente pronto per riprendersi il mondo. Serviva solo lo scenario giusto: a quello ci pensò Don King, il manager con pochi scrupoli che stupì il mondo organizzando in Zaire la “rissa nella giungla” (Rumble in The Jungle). Il favorito era il campione del mondo George Foreman, ma il pubblico era tutto per il simbolo dei diritti dei neri. Campanella alle 4 del mattino nella calura infernale africana, cinque milioni di dollari di borsa per ciascuno dei due contendenti, pubblico rovente che urlava «Ali bomaye», «Ali uccidilo». Il campionissimo invece vinse di strategia: si fece colpire a lungo per sfiancare Foreman, mentre lo tormentava con i colpi al viso. Poi all’ottavo round, con un gancio sinistro lo mandò al tappeto ormai incapace di reagire.

Un momento del celebre incontro Thrilla in Manila (nelle Filippine), del 1975, che ha visto Ali contro Joe Frazier © GettyImages

Fu l’apoteosi definitiva per The Greatest, il più grande di tutti, che chiudeva il cerchio riprendendosi il trono iridato. Mancava solo la ciliegina, la rivincita mondiale con Joe Frazier. Copione simile, ma nelle Filippine: Thrilla in Manila, gennaio del 1975. Al 14esimo round il secondo di Frazier gettò la spugna ponendo fine alle sofferenze di entrambi. Alì stesso ammise di essere stato vicino alla resa a causa del caldo insopportabile. «È stata la cosa più vicina alla morte mai provata», disse. Ali ebbe così la sua rivincita contro il suo avversario più agguerrito, poi negli anni divenuto un grande amico. Anche se quello non fu l’ultimo capitolo della rivalità: la figlia di Frazier provò a pareggiare virtualmente i conti nella boxe femminile nel 2001, ma venne a sua volta sconfitta da Laila Ali ai punti.

A tre anni dalla perdita del titolo (1978), il campionissimo si ritirò dopo 29 mila pugni subiti e 57 milioni di dollari guadagnati – il conteggio è suo – e un segno indelebile lasciato nella storia degli Usa e dell’umanità. Ma la sua battaglia non era finita: nel 1984 gli fu diagnosticata la malattia di Parkinson, un altro avversario temibile contro cui combatté con coraggio. L’immagine del suo corpo scosso dai tremori della malattia, mentre saliva i gradini del braciere olimpico ad Atlanta, fece il giro del mondo come testimonianza di coraggio e sofferenza. E in occasione di quell’evento, il Comitato olimpico internazionale (Cio) gli donò una copia della medaglia olimpica vinta a Roma e gettata nel fiume Ohio dopo un episodio di razzismo di cui era stato vittima al rientro dall’Italia. La battaglia era vinta, The Greatest poteva finalmente riposare e la campanella è suonata per lui nel 2016, a 74 anni. Il bilancio della sua vita? Lo lasciamo alle sue parole, pronunciate dopo la diagnosi di Parkinson, ma valide per ciascuno di noi: «Le mie sofferenze fisiche sono state ripagate da quello che sono riuscito a ottenere nella vita. Un uomo che non è coraggioso abbastanza da assumersi dei rischi, non otterrà mai niente».