«In God we trust, all others bring data». La massima del guru della gestione aziendale William Edwards Deming è anche uno dei motti di Cristiana Caldarelli, Business Unit director di Eli Lilly. Nella filiale italiana della multinazionale farmaceutica, Caldarelli si occupa di marketing, e nello specifico per la divisione Bone & Cardiovascular. Visto il settore ad altissimo tasso di innovazione in cui opera, il contatto con i dati, la loro interpolazione e la loro analisi sono sempre stati per la manager di vitale importanza quando si è trattato di ipotizzare piani d’azione. «Ma oggi che ci troviamo nel pieno del processo attraverso il quale intendiamo passare da un marketing basato solo sulle valenze scientifiche dei prodotti a un approccio fondato anche sulla centralità dei clienti, la collaborazione con il reparto Information Technology si è evoluta tantissimo. Se prima ci rivolgevamo ai colleghi dell’IT più che altro per richiedere servizi legati all’infrastruttura, o soluzioni hardware, oggi si tratta di una componente che contribuisce in maniera attiva non solo all’elaborazione di tattiche, ma anche di strategie: si rivela ogni giorno di più un business partner che costruisce con noi la possibilità di ottenere i dati di cui abbiamo bisogno, per poi integrarli e uniformarli in modo che ci aiutino a valutare e decidere a tutti i livelli. Tutto ciò è indispensabile se vogliamo essere in grado di identificare soluzioni tagliate su misura, a seconda che si lavori a livello regionale o nazionale oppure se ci si confronta con le altre strutture europee». L’esperienza di Caldarelli ormai non è più un caso isolato, anche se ci troviamo in Italia, dove business intelligence e analytics sono ancora funzioni e approcci poco assimilati. Eppure qualcosa sta cambiando. Per capire come e in che misura, abbiamo condotto un’inchiesta su tre responsabili marketing e tre direttori IT di sei grandi aziende italiane prendendo le mosse da un’osservazione di Maria Cristina Farioli. Il direttore marketing, comunicazioni & citizenship di Ibm Italia, ha infatti dichiarato in una recente intervista concessa a Business People che rispetto all’utilizzo dei dati non è più possibile limitarsi a parlare di professionalità con competenze definite, ma è necessario che si sviluppino figure a tutto tondo in grado di lavorare sulla convergenza delle funzioni e sulla capacità di gestire il brand nella multicanalità. In qualche modo sembra che anche il nostro mercato si stia allineando su una tendenza che a livello mondiale rappresenta una risposta alle nuove esigenze del consumatore e dell’economia: individuazione dei bisogni non più di un cluster, ma del singolo cliente, adattamento dell’offerta e ottimizzazione della distribuzione, nell’ottica di ridurre i costi garantendo il miglior output possibile. I numeri parlano chiaro: le stime Idc dicono che entro il 2015 il mercato dei sistemi e delle soluzioni per la gestione, l’elaborazione e la conservazione di grandi volumi di dati varrà almeno 17 miliardi di dollari (specialmente nelle componenti server, software e storage), secondo una proiezione di Gartner, la spesa IT relativa ai big data crescerà in tutto il mondo dagli attuali 27 miliardi di dollari (calcolati sul 2012) ai 55 miliardi di dollari nel 2016. E sempre secondo la società di consulenza, il 20% almeno delle principali mille aziende IT di tutto il mondo avranno già stabilito una propria strategia big data entro il 2020, mentre già per quanto riguarda il 2013 il 42% di un panel di professionisti coinvolti sul tema ha dichiarato che l’azienda di cui fa parte investirà sicuramente in tecnologie di questo tipo durante l’anno in corso. Del resto un’altra recente indagine globale congiunta dell’Università di Oxford e di Ibm, condotta su 1.144 professionisti commerciali e dell’IT di 95 Paesi e 26 settori diversi, mette in evidenza che il 63% degli intervistati sta già ottenendo vantaggi competitivi per la propria organizzazione dall’utilizzo di big data e funzionalità analitiche: si tratta di un aumento del 70%, rispetto al 37% che si espresse nella stessa maniera in uno studio analogo realizzato da Ibm nel 2010.
CIFRE DA CAPOGIRO | |
17 miliardi di dollariIl valore del mercato dei sistemi per la gestione, l’elaborazione e la conservazione di grandi volumi di dati nel 2015 | |
27 miliardi di dollariLa spesa relativa ai Big data nel 2012 | 55 miliardi di dollariLa spesa relativa ai Big data nel 2016 |
IL MARKETING AFFINA I SENSI«Il mondo dei dati ha subito negli ultimi anni importanti cambiamenti», conferma Giuseppe Papa, senior manager Customer Marketing & Brand Communication di Mattel Italy. «Nel 2012, secondo alcune stime, ogni giorno sono stati creati circa 2,5 exabite di dati. Come abbiamo fatto a produrli? Basti pensare che ogni secondo spediamo quasi tre milioni di e-mail e ogni minuto carichiamo oltre 20 ore di video su YouTube. Se il dato sembra impressionante, proviamo a immaginare che il numero è destinato a duplicarsi ogni 40 mesi. Consideriamo cosa succederà quando anche la Cina completerà il suo processo di alfabetizzazione informatica. Ci troveremo di fronte a numeri stratosferici, derivati dall’aggregazione di tre aree: “machine to machine” (per esempio la scansione dei bar code), “people to machine” (come nel caso dell’e-commerce) e “people to people” (citando naturalmente i social network)». Giuseppe Papa è entrato in contatto con le prime due aree durante la sua esperienza in Carrefour, vista l’immensa mole di transazioni derivante dagli acquisti (bar code, loyalty card, carte di credito, bancomat, ecc.), mentre sull’ultima, quella dei social network, sta concentrando il suo impegno proprio in questi mesi, e in Mattel. «In questo senso abbiamo maturato l’intenzione di lavorare in più approfondita gestione delle informazioni derivanti dai nostri consumatori. Stiamo sviluppando numerose iniziative atte alla costituzione di un database “mobile” (il nostro target è in continuo cambiamento: un bambino di cinque anni è completamente diverso da un bambino di otto anni) per seguire consumatori e shopper. Questo tipo di analisi ci permetterà di guidare un’estrema personalizzazione dell’offerta, aumentare la brand loyalty e guidare i consumi, targettizzando meglio offerte e campagne». Ma non sono solo i settori farmaceutici e del largo consumo quelli che hanno più bisogno di affinare le proprie strategie attraverso l’analisi dei dati. Anche in un mondo dov’è l’emozione a farla da padrona, come è quello radiofonico, riuscire a catturare il sentiment per indirizzare l’offerta editoriale oggi è diventato da un lato assai più semplice, grazie all’analisi delle tracce lasciate su Internet e social network, dall’altro imprescindibile, visto il confronto sempre più serrato con la concorrenza. Marco Pontini, direttore generale marketing e commerciale di Radio Italia, è entusiasta del lavoro che sta svolgendo insieme al suo responsabile IT. «All’indomani del concerto gratuito che Radio Italia ha organizzato l’11 maggio in piazza Duomo a Milano, abbiamo cominciato ad acquisire tutti i dati a nostra disposizione per estrapolare la total audience dell’evento. Se in piazza c’erano circa 100 mila persone, abbiamo calcolato che attraverso il canale televisivo, Internet e naturalmente la radio, il pubblico del concerto ammontava a circa 2,1 milioni di contatti, contro il milione e 200 mila dell’anno scorso». Però il dato quantitativo è solo il punto di partenza per il team di Pontini, un lusinghiero biglietto da visita quando si tratta di andare a parlare con gli inserzionisti, certo, ma un elemento da scorporare e approfondire, da valorizzare ulteriormente sul piano qualitativo. «Abbiamo affidato una ricerca a Group M, che ha collaborato col nostro reparto IT per analizzare tutte le attività a livello social, compresa la qualità dell’interazione. Sono state messe in evidenza le parole ricorrenti, e di conseguenza l’indice di gradimento, l’entusiasmo e la gioia generati dall’evento, ma anche l’eventuale insoddisfazione». Oggi le operazioni da svolgere sono chiare a tutti, e il lavoro sulla parte digitale è febbrile, in Radio Italia quest’approccio è maturato solo recentemente. «Per noi le cose sono cambiate repentinamente negli ultimi due anni, ma l’approccio strategico in ambito digitale è la naturale conseguenza dello sviluppo di un sistema multimediale strutturato come il nostro, che vive su radio, Tv, Internet e social network, ognuno dotato della propria specificità. E nel momento in cui si accede a media che presuppongono un’azione biunivoca, bisogna sfruttare tutti i vantaggi derivati dal fatto che il pubblico può esprimere la propria opinione. E venire a sapere che la gente non gradisce qualcosa non è affatto una brutta notizia: il problema è quando non lo si viene a sapere. Questo non significa che si possa sperare di smettere di fare errori: gli aggiustamenti sono inevitabili tutti i giorni in ambito editoriale, quello che ci possiamo permettere adesso è un’operazione di fine tuning condotta in profondità. La sempre maggiore esperienza in ambito digital ci permette di condividere best practice anche con i nostri inserzionisti, che cominciano a chiederci di essere messi in relazione con chi ci segue. In alcuni casi siamo diventati una porta d’ingresso al mondo social».
ANALISTI COL FIUTO PER IL BUSINESS Così come i direttori marketing subiscono sempre di più il fascino degli analytics e delle decisioni prese sulla base dell’elaborazione di dati, allo stesso modo i chief information officer e più in generale i responsabili delle aree digital delle imprese italiane si scoprono consulenti di business apprezzati e ricercatissimi a ogni livello dell’organizzazione. Guido Roda è head of Network Engineering di Fastweb, e non stupisce che già a partire dal 2000 la società di Tlc abbia lavorato alla costruzione di una base stabile di dati (datawarehouse) sui quali ha poi implementato funzionalità specifiche per soddisfare la richiesta di informazioni provenienti da varie funzioni aziendali come il marketing, le vendite e il customer care. «Tutto in una piattaforma unica, senza stratificazioni tecnologiche», dice Roda. «All’inizio, la nostra esigenza era più orientata all’analisi dei dati di fatturato, dei volumi di traffico, delle attivazioni e disattivazioni dei servizi e dei clienti. Oggi le necessità sono radicalmente cambiate: il business ha bisogno infatti di conoscere sempre più a fondo il cliente per poter ragionare in modo proattivo con offerte mirate, servizi innovativi e diversificati, nuove strategie di prezzo e altro ancora. Per esempio, nei prossimi mesi, proprio grazie alla raccolta multicanale (customer care, negozi monobrand ecc…) dei dati, e sulla spinta delle richieste provenienti dai nostri clienti, abbiamo modificato il layout della fattura rendendola più semplice, puntando sulla chiarezza delle informazioni e sulla facilità di lettura. Ma emergono anche nuove necessità, come l’aggiornamento dei dati del cliente in “real time” per gli operatori, le gestione delle informazioni strutturate tramite motori semantici oppure l’elaborazione rapida dei dati per consentire agli operatori di customer care di utilizzare efficacemente gli strumenti per l’assistenza al cliente. Anche per la funzione marketing», chiosa Roda, «diventa indispensabile disporre di tutti i dati necessari per organizzare in modo tempestivo le nuove offerte». Attualmente in Fastweb sono in corso analisi e studi di fattibilità per l’implementazione, in futuro, di una infrastruttura IT in grado di gestire i big data a 360 gradi, e secondo Roda quest’approccio spinge naturalmente le funzioni aziendali a confrontarsi in maniera costante. Prendete questo concetto e portatelo alle sue estreme conseguenze. In Tnt Express Italy, per esempio, il dipartimento Information Technology ha addirittura sistemato in pianta stabile una propria risorsa all’interno dell’ufficio marketing. «Si tratta di una figura oramai del tutto autonoma per quanto riguarda la realizzazione di piccoli report basati su analisi di mercato e incroci di dati interni ed esterni», spiega Paolo Ballabene, IT Director della società di spedizioni e logistica. «Su altre aree, come per esempio il commercial, lavoriamo con i loro dati direttamente sui nostri calcolatori, così garantiamo massima elasticità all’organizzazione, fornendo dettagli sulla profittabilità dei singoli clienti e sui livelli di servizio delle filiali e la produttività di una determinata area. Ma pure se parliamo di report istituzionali, relativi alle performance e agli economics dell’azienda, si tratta di un lavoro effettuato da noi». E la crescente importanza del ruolo svolto da Ballabene, membro a tutti gli effetti dell’executive team, è riconosciuta anche dal fatto che il punto di vista del dipartimento IT è preso in considerazione per ogni decisione strategica. TUTTI PAZZI PER LA – PROPRIA – TECNOLOGIAVincenzo Russi, appena nominato chief digital officer del gruppo Messaggerie italiane (vedi la notizia in People Moving) sa perfettamente a cosa si sta alludendo. Nella sua vita precedente, Russi era direttore generale di Cefriel, società di consulenza informatica, e il lavoro gomito a gomito con i numeri uno delle aziende era ordinaria amministrazione. «Negli ultimi anni ho riscontrato l’instaurarsi di un nuovo rapporto tra figure professionali come la mia ed esponenti del top management, che cercano in chi si occupa di IT, oltre alla capacità di governo e alla comprensione delle tecnologie, anche una spiccata sensibilità per il business e per il cliente. Oggi infatti competere sul mercato vuol dire sfruttare al meglio le tecnologie digitali per interagire con consumatori, partner e fornitori». Secondo Russi, è infatti inutile catalogare e comprendere tutti i numeri che orbitano intorno al business se poi non si è in grado di sintetizzarli e renderli fruibili. «Più che su un dashboard io vorrei che fossero disponibili in un cockpit. Sì, un cockpit come quello delle monoposto da Formula 1, uno strumento che legga i dati essenziali della mia macchina e del suo motore, capace di raccogliere e visualizzare una quantità elevata di dati permettendomi di effettuare piccole modiche in tempo reale. E indipendentemente da chi si trovi al volante. Non dobbiamo mai dimenticarci che il dato – o la sua sintesi – non è la decisione, ma un supporto alla decisione: il pilota è sempre la persona. In passato abbiamo tentato di rappresentare i dati nella forma che interpretavamo come la migliore dal nostro punto di vista, quella che pensavamo fosse corretta in senso assoluto, ma ci siamo presto resi conto che avevamo forzato il nostro interlocutore alla lettura di modelli che erano chiari solo per noi. C’è da dire che prima non c’erano le interfacce user-friendly che ci sono oggi. Ma per saperle declinare al meglio rimane comunque necessaria la massima interazione, una collaborazione diretta e intensa tra chi fa il nostro lavoro e le figure apicali dell’azienda, dal Ceo ai responsabili vendite e marketing».
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