Fotocronaca di un delitto

Non sono solo le ristrettezze del mercato dei quotidiani e dei periodici ad aver sancito la fine di un’impresa che diffondeva cultura, tutelando privacy e copyright. Il peso di giganti come Getty e Corbis, il digitale e la proliferazione delle veline che hanno soppiantato il reportage hanno fatto il resto. La parola a Grazia Neri, signora del fotogiornalismo, fondatrice dell’omonima agenzia

E’ l’ennesima vittima di questa interminabile fase di transizione che i media stanno affrontando. Una specie di limbo che esiste da quando Internet e il digitale hanno fatto capolino sulla scena dell’informazione mondiale, e che ha messo in discussione tutte le certezze costruite attraverso un lungo e appassionato lavoro attorno al concetto di copyright e al valore (soprattutto economico) dell’immagine. Dopo più di 40 anni di attività al servizio della fotografia e dei fotografi, chiude l’agenzia fotografica Grazia Neri. E poco importa se negli scrigni – pardon, negli archivi – della sede di Via Maroncelli a Milano sia nascosto un tesoro di 15 milioni di foto analogiche e sei milioni di foto digitali: la bilancia tra entrate e uscite negli ultimi 12 mesi si è inclinata troppo a sfavore dei ricavi, facendo segnare un brusco -40%. Una conseguenza della stretta di cinghia di quotidiani e periodici sull’acquisto di foto, sempre più facilmente reperibili sul web, in alta risoluzione e senza alcun tipo di controllo sul copyright. Colpa della crisi del settore editoriale, certo, ma anche di un accerchiamento operato dalle grandi società americane. Per non parlare della radicale trasformazione di quei giornali che negli anni d’oro del fotogiornalismo, gli anni ‘80, pubblicavano i grandi reportage, e che ora invece si sono ridotti a essere poco più che almanacchi pieni di «veline “photoshoppate”». A dirlo è proprio lei, Grazia Neri, che da sempre si è battuta per la qualità delle foto da pubblicare e soprattutto per il riconoscimento dell’autore.

Oggi orde di dilettanti diventano i testimoni della cronaca grazie ai cellulari … il fotogiornalismo professionale deve a loro il suo momento di difficoltà?L’assassinio di Kennedy fu ripreso da un dilettante che provava una videocamera su un terrazzo, queste cose sono sempre esistite. Il problema non è tanto il cellulare, quanto il digitale, che ha generato una quantità immensa di foto che ci inondano. Allo stesso tempo il mercato dell’immagine è in crisi e nessuno riesce più a correre dietro al copyright, che si perde con Internet. Con l’arrivo del digitale e delle grandi corporazioni americane, come Getty e Corbis che detengono il 60% del mercato mondiale, le agenzie non hanno più avuto voce in capitolo sui diritti d’autore. Se tutte insieme si fossero opposte all’uso gratuito delle fotografie su Internet il copyright sarebbe stato salvato. Come? Avremmo potuto chiudere il rubinetto delle foto fino a che non fosse stata stabilita una regola sicura per lo sfruttamento delle immagini sul web.

Prima del digitale che background, quale sensibilità e cultura doveva possedere chi voleva lavorare con lei? Io non ho mai scelto i fotografi che hanno lavorato con me: sono venuti loro a presentarsi. E come sempre è l’empatia tra due individui a permettere di lavorare bene insieme. Un aspirante fotografo che voleva collaborare con noi doveva possedere determinate qualità: una tecnica sicura, la capacità di lavorare senza copiare gli altri, caratterizzandosi con un proprio stile. Ma soprattutto esigevo una buona preparazione culturale. Non filosofica. Volevo che fosse dentro le cose, che conoscesse bene la storia e l’attualità. Poi, io sono convinta che serva una volontà di ferro.

A quali tappe attribuisce la sua crescita professionale? All’inizio non ero appassionata di fotografia, bensì di lettura di giornali e riviste. Dopo il liceo linguistico Manzoni di Milano non sono andata all’università: avevo perso mio padre e dovevo arrangiarmi da sola. Sapevo il francese e l’inglese, così ho cominciato a lavorare nell’agenzia giornalistica News Blitz, come corrispondente dall’Italia di quotidiani inglesi, occupandomi della syndacation degli stessi. Intanto lavoravo anche nel laboratorio fotografico del quotidiano Corriere Lombardo. Lì ebbi l’intuizione: gli anni ‘60 erano un momento particolare, in cui si credeva che con la fotografia si potesse cambiare il mondo, da qui il sempre maggiore interesse per l’immagine. Ma in Italia non esistevano regole che facessero rispettare il copyright nella cessione delle foto ai giornali. La svolta arrivò con il fotografo Hubert Henrotte, il quale mi disse che avrebbe aperto la prima agenzia francese, la Gamma. Il suo ragionamento era semplice: i giornali non avrebbero mai avuto le risorse per ottenere le foto da tutto il mondo, sarebbe stato molto più semplice comprarle da un service che lavorasse per loro fornendole a tutti quanti. Così divenni rappresentante di Gamma in Italia. Andare avanti e indietro da Parigi mi permise di conoscere giovani fotografi che sarebbero diventati celebri, come Gilles Caron. Nel 1967, poi, volai a New York. Gli Stati Uniti erano in pieno fermento allora, e lì conobbi tutto della fotografia. Imparai come si legge e si sceglie una foto, cosa è il foto editing. Diciamo che la Francia mi ha fatto conoscere la tradizione e la storia della fotografia, mentre l’America l’editing, il rispetto del copyright e soprattutto cosa può raccontare una foto.

Come sono cambiati i rapporti di forza tra agenzie e giornali nella scelta delle fotografie?Dopo il momento magico dei grandi fotoreportage, il photo editor è diventato troppo vincolato agli input che arrivano dal direttore di un giornale, e come se non bastasse con troppo poco tempo per lavorare: sul colophon di una testata si legge che per le foto lavorano due persone, per la parola scritta ne lavorano 30. Ho l’impressione che nessuno più abbia il coltello dalla parte del manico. È un momento di disperazione.

Negli ultimi anni aveva lasciato il lavoro operativo nell’agenzia a suo figlio Michele, per potersi dedicare all’organizzazione di mostre fotografiche. La fotografia come arte e il collezionismo possano essere una valvola di sfogo per chi si occupa di immagine?È molto difficile dire dove vada oggi la fotografia. Credo che abbia bisogno di tornare alla ricerca per poter andare avanti, perché molte foto sono tutte uguali. Il mercato è cambiato, c’è una disseminazione folle di gallerie. La cosa certo mi fa piacere, ma non so quanto possano sopravvivere tutte. La critica fotografica, che in Italia conta tre o quattro esponenti di grande valore, si disperde per tutte queste manifestazioni per cui può accadere che le persone vadano a vedere una mostra attratte più dal soggetto delle foto che non dal fotografo. Mi piacciono le gallerie che premiano il contemporaneo.

Durante la sua carriera quanti tipi di Italia ha visto? Qual è l’immagine dell’Italia oggi?Ne ho viste tante, purtroppo, di immagini dell’Italia. Prima di aprire l’agenzia ho avuto a che fare con un’Italia curiosa di conoscere il mondo. Il dopoguerra da noi in realtà è durato 15 anni, abbiamo fatto fatica a integrarci con quello che succedeva nel resto del mondo, e Milano era una città provinciale: quello che ci era capitato era stato troppo grosso. Poi c’è stata l’Italia della presa di coscienza delle responsabilità politiche, era un’Italia di denuncia. A margine sorgeva l’Italia del benessere, della moda, del consumo. Dico tutto in termini non moralistici, anzi: erano gli anni dei miti e allora i miti duravano tanto. Oggi ci troviamo di fronte a un’Italia che mi piace molto poco, e non lo dico perché sono vecchia. Tutti quei giornali che vivevano di reportage parlano solo di veline, sempre le stesse facce con i denti sbiancati, sempre “photoshoppate”. Non si vede più come siamo. Questo è ciò che più mi disturba.

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