Bamboccioni senza confini

Strano ma vero, non li abbiamo solo noi. Anche in paesi dove l’autonomia e l’indipendenza sono valori irrinunciabili cresce la voglia di non allontanarsi dal focolare domestico. Una risposta alla crisi? Forse addirittura un antidoto, perché la sindrome di Peter Pan in alcuni casi può aiutare l’economia

Chissà se il compianto Tommaso Padoa Schioppa, nel momento in cui pronunciava quella parola, era consapevole di essere lì lì per creare una nuova categoria sociologica. Di più, un’icona, un’identità che è diventata patrimonio non solo della stampa e di almeno due generazioni di italiani, ma anche dell’immaginario di mezzo Vecchio continente. Oggi bamboccione, da Otranto a Oslo, è inequivocabilmente sinonimo di giovane perdigiorno incapace di vivere un’esistenza in autonomia. Una specificazione di quello che è lo stereotipo dell’italiano medio per la maggior parte delle genti d’Europa, a dire il vero. Un modo di essere, e di vivere, quasi un orgoglio, per il quale i giornali di Gran Bretagna, Francia, Olanda e Germania hanno da qualche tempo cominciato a prenderci soavemente per i fondelli. Chiamandoci con disinvoltura «bamboccioni». Sì, senza traduzione. E ne hanno ben donde, visto che i freddi dati confermano la storica – anzi cronica – tendenza degli italiani a non rinunciare al nido, alle cure e soprattutto all’aiuto economico dei genitori prima dei trent’anni. Se nel 1993, era il 56% della popolazione tra i 18 e i 34 anni non sposata a vivere insieme ai genitori, dieci anni dopo si era arrivati a quota 60%, mentre oggi saremmo intorno al 70%, che si traduce in oltre 5 milioni e mezzo di bamboccioni. Ma pare esserci una novità: il bamboccione non è più solo un’esclusiva nostrana. Complice la crisi, le conseguenti trasformazioni (leggasi: tagli) del welfare in alcuni Paesi europei e la sempre minore disponibilità dei giovani alla rinuncia, al sacrificio, al cambiamento delle abitudini di consumo che comporta l’indipendenza, il fenomeno comincia a diffondersi anche fuori dai nostri confini. Attenzione: nessuno pensi che si tratti di qualcosa di endemico, di una tendenza capace di frantumare le fondamenta della struttura sociale dei popoli nordeuropei, che a differenza di quella italiana non è basata sul culto della famiglia. Ma qua e là si intravedono casi che, pur diversi tra loro, fanno inorridire le opinioni pubbliche straniere e che, va detto, fanno sentire noi italiani finalmente un po’ meno soli.

A CIASCUNO IL SUO

Non si deve per forza rimanere attaccati alla sottana di mamma per vivere da vero bamboccione. Lo sapevate che i Paesi Bassi hanno serie difficoltà con la gestione degli studenti fuoricorso? Quello olandese è il classico esempio di come un sistema virtuoso, addirittura eccezionalmente virtuoso, possa rivelarsi un’arma a doppio taglio e dare vita a un circolo vizioso: da sempre il sistema universitario olandese favorisce gli studenti fuorisede con agevolazioni, sgravi e addirittura incentivi, prestiti a fondo perduto per permettere loro di frequentare i corsi, nonostante si trovino lontani da casa, senza pesare sulle tasche dei genitori. Ogni studente riceve un sussidio di 95,61 euro al mese anche se rimane con papà e mamma. Chi sceglie di andare a vivere da solo riceve invece 266,23 euro mensili (a cui può aggiungersi un prestito a tasso agevolato sulla base del reddito familiare), che aiutano a coprire le spese di un affitto già di per sé non esoso. Ad Amsterdam, a pochi passi della Centraal Station, in pieno centro, ci sono dormitori per studenti che offrono la possibilità di avere un monolocale senza coinquilini a circa 300 euro al mese. Una cosa del genere a Milano suonerebbe come un miracolo. Ma non è finita: gli studenti viaggiano gratis su tutti mezzi pubblici urbani ed extraurbani nei giorni feriali, e a tariffa ridotta nel week end. L’unica condizione per godere di tutti questi privilegi è rimanere in corso, altrimenti il sussidio si trasforma in un prestito, e la somma va restituita allo Stato dopo il conseguimento della laurea. Ebbene, la vita dello studente in Olanda è così piacevole che i giovani vorrebbero che durasse per sempre. Sono infatti sempre di più quelli che rimangono parcheggiati all’università, mantenuti dallo Stato, nei confronti del quale il debito da estinguere cresce di anno in anno, o tutt’al più integrando il reddito con qualche lavoretto part time. Tanto le tasse per il college (che sono paragonabili a quelle italiane) le pagano mamma e papà. Il governo olandese non è rimasto a guardare, e ha introdotto delle pesanti sanzioni per disincentivare i fuoricorso. Per ogni anno perso, ci sono 3 mila euro in più sulle rette universitarie. L’iniziativa non è piaciuta troppo agli studenti, che nel corso del 2010 hanno protestato vivacemente, arrivando addirittura a scontri di piazza con la polizia. Ma visto che il governo (a causa anche della crisi internazionale che ha imposto una politica di rigore persino nell’isola felice di sua Maestà Beatrice) non ha arretrato di un passo, i bamboccioni olandesi, per continuare a vivere la loro placida esistenza universitaria, hanno preso d’assalto gli atenei delle Fiandre, primi tra tutti quelli di Gent e Antwerpen, a pochi chilometri dal confine. Adesso anche il governo belga vorrebbe correre ai ripari, e aumentare la retta universitaria (e soprattutto introdurre le sanzioni per i fuoricorso stranieri) per quelli che la stampa locale definisce «giovani pigri e chiassosi». Ma contravverrebbe alle regole dell’Unione europea, secondo le quali non è possibile discriminare i cittadini. Anche se sono giovani, pigri e chiassosi. Pure in Wallonia, la regione del Belgio francofona, le università sono alle prese con problemi analoghi, provocati da studenti francesi in fuga dalla madrepatria più o meno per le stesse ragioni degli olandesi.

Persino la flemmatica Gran Bretagna sta cominciando a provare sulla propria pelle cosa significhi vivere da bamboccione. I principali quotidiani inglesi, Times in testa, qualche tempo fa si sono chiesti con non poco sconcerto se non si rischiasse di fare la fine dell’Italia e dei suoi giovani indolenti. Solo che lì li chiamano “mummy’s boys” visto che il fenomeno è prettamente maschile. Nel 2010 l’Office for national statistics ha pubblicato un dato allarmante: un quarto degli uomini tra i 25 e i 29 anni vive ancora in famiglia, mentre solo una donna su otto della stessa fascia d’età non ha ancora lasciato la casa dei genitori. Ma il dato è destinato a diventare ancora più vistoso: il caro affitti nelle grandi città, prima tra tutte Londra, i morsi della crisi che fiaccano il mercato del lavoro e un assetto sociale che si sta riequilibrando dopo l’austerity annunciata (e praticata) dal governo conservatore, stanno dissuadendo molti giovani a lasciare casa, e ne stanno convincendo molti altri che erano già diventati indipendenti a tornare dai genitori. Se il termine bamboccioni può far storcere il naso a qualche purista in bombetta, li si può chiamare “kipper”, un acronimo che sta per “kids in parents pockets eroding retirement saving”, letteralmente “figli a carico dei genitori che scroccano risparmi e pensione”. Vien quasi da pensare che in fondo la definizione di Padoa Schioppa non fosse poi così sprezzante. In Germania si definiscono “nesthocker”, “aggrappati al nido”, mentre in Austria si dice, abbastanza eloquentemente, “hotel mama”. E non dimentichiamoci la Francia e la “sindrome di Tanguy”: questi, bamboccione ante litteram, era il protagonista di una commedia del 2001. Il film raccontava l’insofferenza di due genitori borghesi alle prese con un figlio che aveva tutte le carte in regola per vivere la propria vita (28 anni, una laurea in tasca, la promessa di una carriera e persino una relazione stabile), ma che proprio non voleva saperne di mollare i cari vecchi.

In Spagna, Portogallo e Grecia il fenomeno è alla stregua del caso italiano (la metà degli uomini di 28 anni vive ancora con i genitori in tutte e tre le nazioni, mentre la soglia su cui si attestano le donne è inferiore rispetto alla Penisola, generalmente perché si sposano prima), solo che lì non c’è mai stato un ministro dell’Economia che si sia preso la briga di stigmatizzare il dato come indice di un problema.

MA È DAVVERO UN PROBLEMA?

Al di là dell’innegabile matrice culturale, del ruolo e del significato della famiglia nelle singole società europee, il fenomeno del bamboccionismo sembra dunque avere anche a che fare con il contesto economico in cui è inserito un Paese. Non è un caso che, come si è detto, i giovani rimangono o tornano dai genitori specie quando la spesa sociale verso di loro diminuisce o quando la congiuntura economica diventa sfavorevole. «Le poche evidenze che abbiamo a disposizione dicono che prolungare la coresidenza coi genitori è una risposta assolutamente razionale alla crisi», afferma Francesco Billari, che insegna demografia alla Bocconi di Milano. «Ma per parlare di veri e propri bamboccioni anche all’estero, con conseguenze di lungo periodo, dovremmo arrivare al livello italiano, un caso eclatante per l’Europa, superato forse solo dalla Grecia colpita dal default». Non bisogna però dimenticarsi dell’aumento dei divorzi in tutta l’Ue. Secondo gli ultimi dati Istat, in Italia fallisce un matrimonio su tre, e la durata media di una unione è di 15 anni. «Oggi un numero sempre più considerevole delle nuove famiglie si sfascia dopo pochi anni», dice Carlo Buzzi, docente di Sociologia all’università di Trento. «Prima, quando i giovani uscivano di casa per sposarsi, anche in caso di fallimento del matrimonio, continuavano a vivere per conto proprio. Adesso tendono a tornare dai genitori, e questo non avviene solo in Italia». Dunque esistono dei tratti che accomunano l’atteggiamento dei kidders o dei nesthockers a quello dei Peter Pan nostrani. Ma c’è di più.«Esistono dei vantaggi indubbi nel continuare a vivere con i genitori oltre la soglia dei trent’anni», continua Buzzi: «La qualità della vita, misurata anche in termini di consumi culturali e possibilità di viaggiare è generalmente migliore se un giovane lavora ma decide di rimanere in famiglia. Tra l’altro le statistiche ci dicono che nella maggior parte dei casi, soldi in casa non ne vengono dati. Ci sono poi studiosi come Marzio Barbagli che hanno messo in luce una serie di vantaggi anche sul piano professionale. Per esempio, comparando giovani che stanno in casa con altri che vivono da soli, risulta che i primi hanno più possibilità di fare carriera. Perché», precisa Buzzi, «non hanno problemi di conciliazione, non devono pensare alla famiglia, possono dedicare tranquillamente più energie al lavoro, e allo stesso tempo hanno più possibilità di formarsi, di frequentare corsi, che li aiutano ad aumentare la propria competitività nel mondo del lavoro. Terzo elemento, e sempre riferito all’ambito professionale: hanno più chance di mobilità e flessibilità territoriale. Se trovano un lavoro che richieda di allontanarsi, possono farlo. Invece chi ha una casa, magari un affitto da pagare, e una famiglia, prima di accettare ci pensa due volte. Il risultato finale? Le possibilità di miglioramento sociale sono maggiori». Sembrerebbe quasi l’apologia del bamboccionismo. D’altra parte, quanto osservato dagli studi di Billari dimostra che c’è un rovescio della medaglia. «Il dibattito ruota anche intorno alla questione se il bamboccionismo abbia contribuito a indebolire l’economia. È difficile dimostrarlo, ma potrebbe averlo fatto», dice il professore della Bocconi. «Una piccola analisi che ho condotto ha evidenziato che chi sta a casa dei genitori per più tempo ha nel lungo termine un salario minore, e questo genera un effetto concatenato di mancata innovazione e benessere. Si potrebbe dire che con il bamboccionismo abbiamo iniziato a erodere quegli elementi di innovazione e ambizione che avevano portato Paesi come l’Italia a crescere». La vena ironica contenuta nel termine coniato da Tommaso Padoa Schioppa – che non ce l’aveva con chi purtroppo tra precariato e disoccupazione non ha scelta – sottolineava la volontà, quasi il compiacimento, dello stare a casa con mamma e papà pur avendo la possibilità di fare altrimenti. Ma la critica a questa pratica, ancor più che con l’etica e i valori positivi di autonomia e indipendenza, non ha proprio a che fare con l’immobilismo che comporta nella società e nell’economia? Al post-crisi – augurandoci che arrivi presto – l’ardua sentenza.

E A NOI PIACE ESSERE CHIOCCE

È l’altra faccia della medaglia. Se in Italia la percentuale di figli che vivono sotto lo stesso tetto dei genitori è quasi raddoppiata dal 1970 al 2000, e se, ancor prima che la crisi esplodesse, il fenomeno riguardava l’83% dei maschi tra i 18 e i 30 anni, e il 73% tra i 25 e i 29 anni (fonte: Living arrangements in Western Europe: does cultural origin matter? di Paola Giuliano, 2006), la responsabilità è anche, anzi soprattutto, della famiglia. Ebbene sì, noi italiani siamo un popolo di chiocce esageratamente protettive. Ce l’abbiamo nel Dna, fa parte della nostra cultura. Tanto che, sempre dallo studio citato, emerge che i ragazzi di origine italiana residenti negli Stati Uniti tendono a replicare le abitudini di coabitazione diffuse nella Penisola. E non è tutto. Secondo l’inchiesta mondiale World Value Survey, l’Italia è l’unico Paese, tra Europa e Usa, in cui i genitori si dichiarano “contenti” o “molto contenti” se hanno almeno un figlio in casa. Insomma, la mela non cade mai troppo lontano dall’albero…

(di Cristina Penco)

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