Tino Canegrati: «Tutto è possibile»…

...solo se le nostre aziende avranno il coraggio di cogliere le opportunità offerte dalla prossima rivoluzione industriale, fondata su macchine in grado di sposare reale e virtuale. È così che immagina il futuro (e il Rinascimento del Paese) l’amministratore delegato di Hp Italy

Il futuro se non lo si immagina, non lo si costruisce. Se poi lo si re-immagina alla luce della rivoluzione copernicana dettata dalla tecnologia, si possono scoprire ambiti che vanno oltre l’immaginazione perché sconfinano quasi nella fantasia. È questa l’impressione che si ricava assistendo alla tappa milanese dell’Hp & Microsoft Tour in cui Hp Italy, l’anima della multinazionale Usa che si occupa di prodotti per casa-ufficio come pc, stampanti e oltre, divisasi proprio a novembre da Hp Enterprise, che offre servizi e consulenza tecnologica, ha incontrato tutta una schiera di partner e interlocutori. “Reimage the future” era il titolo della kermesse, durante la quale l’amministratore delegato Tino Canegrati ha battuto insistentemente sul tasto «innovazione-innovazione-innovazione» (proprio così: ripetuto come un mantra in triplice copia…) al fine di capitalizzare il presente attraverso la leadership nei mercati dei personal systems e del printing, anticipare e presidiare le evoluzioni tecnologiche ipotecando gli ambiti in grado di fare sviluppare nuovi modelli di business alle aziende, e creare il futuro attraverso la cosiddetta blended reality, che unisce reale e virtuale e che vede nell’Hp Sprout il primo germoglio di una tecnologia che sa sposare fisico e digitale. L’obiettivo non è di quelli alla portata di chiunque: ispirare la prossima rivoluzione industriale, ampliando i margini di democratizzazione dell’industria del manufacturing e favorendo il ritorno a una sorta di artigianato delle origini, seppur tecnologico. Sia chiaro, il futuro, questo futuro, più che possibile sembra inevitabile, l’incognita è solo quando e come le aziende italiane ne approfitteranno per migliorare il loro livello di efficienza e competitività, rivoluzionando il proprio modello di business. Canegrati a riguardo pare avere un paio di idee…

Le passioni di Tino Canegrati

Canegrati, a Milano lei ha parlato dello spirito del “si può fare” che ha ricominciato a soffiare sul Paese, della positività che si sente nell’aria, ma ha sottolineato anche come non debba essere solo la politica a sostenere quello che lei si è spinto a definire nuovo Rinascimento italiano, perché anche le aziende sono chiamate a fare la loro parte. Non solo le aziende, anche i singoli individui. Ricordo che negli anni ’70-’80 avevamo un po’ tutti una disposizione mentale secondo la quale nella vita, avremmo forse dovuto lavorare duro, ma avremmo potuto ottenere un lavoro, comprare una casa, avere dei figli e quant’altro. Negli ultimi tempi, invece, abbiamo vissuto un periodo in cui si è ritenuto che, per definizione, le cose non si potessero fare: non si può mantenere la manifattura in Italia perché costa meno altrove, non si può investire perché la nostra burocrazia è troppo complessa e molto altro. Tutte giustificazioni possibili e reali, ma limitanti. Adesso, invece, ho l’impressione che sia, almeno in parte, tornata la sensazione di poter fare le cose nonostante questi limiti. Ciò è positivo, ma che io sia un individuo o un’azienda, poi occorre anche voler fare le cose. E per farle ci vuole coraggio.

E le aziende italiane sono coraggiose? Non si può generalizzare, però, nei miei incontri quotidiani con i clienti, ho colto due o tre fattori concomitanti che premono affinché i comportamenti cambino. Innanzitutto, la crisi ha spinto tutti a cercare nuove strade. In secondo luogo, chi ha messo un piede fuori dal mercato tricolore si è reso conto che noi italiani non siamo poi così sprovveduti. Ho visto molti clienti, anche aziende medio piccole, con tecnologie o competenze che li portano a essere quasi unici a livello internazionale, e ai quali è bastato dotarsi di un minimo di organizzazione per avere successo oltreconfine. Terzo, ci troviamo di fronte a un primo passaggio generazionale in cui i “nuovi arrivati” possono portare una prospettiva differente, in cui l’utilizzo della tecnologia è naturale. La possibilità che si ha oggi di accedere ad altri mercati con investimenti modesti, facilita l’azienda italiana, che è spesso una pmi a carattere familiare, rispetto anche alle multinazionali. Ma non bisogna essere Hp per avere un proprio sito Internet tramite il quale raccogliere ordini per prodotti su misura o per creare un’app. Si è abbassato in maniera rilevante il livello di investimento necessario per sfruttare tecnologie che permettono di far conoscere il proprio prodotto ovunque. Tutto questo credo che possa favorire un nuovo Rinascimento italiano.

Tuttavia, è innegabile che in Italia le aziende soffrano ancora di uno scarto tecnologico rispetto alle straniere: investono in It mediamente la metà di quelle tedesche e francesi, un terzo di quelle del Nord Europa. E questo è un indubbio svantaggio competitivo. Crede che a breve scadenza sapranno osare? Mentre fino a poco tempo fa era tutto bloccato e la maggior parte delle società non voleva assolutamente modificare il proprio modo di fare business, ora credo che qualcosa si stia muovendo, seppur gradualmente. In questo senso, un altro motore di cambiamento, da aggiungere ai tre già citati, è sicuramente la tecnologia. Soprattutto attraverso lo smartphone e il mondo delle app abbiamo scoperto che si possono svolgere attività efficienti con investimenti molto modesti. E dalla vita personale trasliamo queste scoperte in azienda. Consideri che, fino a qualche anno fa, la discriminante per ogni scelta era il prezzo, perché l’unica cosa che contava era risparmiare, ridurre i costi. Oggi, invece, la maggior parte dei nostri clienti mira ad aumentare il fatturato, trovare nuovi partner, offrire nuovi prodotti, sperimentare nuovi modelli di business… Quindi, sono più interessate ad avere strumenti magari più costosi ma in grado di rendere più performanti le attività dei collaboratori e per questo capaci di ripagarsi in un breve arco temporale. È un approccio assolutamente differente. Per farle un altro esempio: il nostro Sprout è nato per un utilizzo non professionale, per ragazzi o artisti, ma quando lo abbiamo presentato in Italia alcune banche e assicurazioni hanno ingaggiato le loro software house per sviluppare attraverso questa macchina attività unattended, quindi senza personale, per servire i loro clienti.

Fino a poco tempo fa la maggior parte

delle imprese non voleva modificare

il suo modo di fare business.

Ora qualcosa si sta muovendo

Dunque, il futuro lo riscrive la tecnologia? No, il futuro lo scrivono gli uomini, la tecnologia è solo un abilitatore, anche se importante. A cambiare deve essere soprattutto la nostra creatività e la voglia di applicarla.

È opinione comune che, sul fronte consumer, i clienti siano più evoluti delle aziende. Hp è impegnata su entrambi i fronti, crede che questa evoluzione si stia trasmettendo anche alle aziende? In effetti, da consumatore, mi sono reso conto che alcune questioni presentatesi al lavoro potevano in realtà essere risolte più semplicemente di quanto mi venisse prospettato in azienda. Ho dunque acquisito una consapevolezza che mi ha portato a esigere di più, ma anche a lavorare in maniera più efficiente. D’altra parte, però, man mano che mi sono personalmente accaduti dei piccoli problemi, ho scoperto anche che alcuni aspetti su cui insistevano in azienda dal punto di vista dei sistemi informativi, in particolare la sicurezza e la continuità, sono realmente importantissimi. Quindi, per tornare alla domanda, è un processo bidirezionale, di interscambio.

La vostra vision è «creare tecnologie che migliorano la vita di ognuno ovunque», la mission «creare esperienze straordinarie ». Come si fanno ad applicare questi stessi obiettivi sia in campo consumer sia business? Lavorando in Hp da molti anni posso dire che nella stragrande maggioranza dei casi avere una doppia anima è un vantaggio. Anche quando lavoriamo a una workstation, una macchina tipicamente professionale, abbiamo sempre in mente, perché fa parte della nostra esperienza con i consumatori, anche la facilità d’uso, la componente estetica, la leggerezza, la possibilità di ripararla facilmente. Tutto questo ci porta ad avere degli atout nella conversazione con gli utilizzatori (più che con i professionisti dell’It), che ci danno un vantaggio rispetto ai concorrenti. D’altra parte, ogni volta che realizziamo una macchina per i consumatori, conoscere i rischi di sicurezza ci permette di ridurre al minimo le possibili esperienze negative o di offrirgli altri vantaggi. Per esempio, è nato prendendo spunto dal mondo business il servizio Ink Advantage, non ancora lanciato in Italia, che in sostanza è un contratto sulla stampante. A fronte di un piccolo canone mensile (misurato sull’utilizzo della stampante del singolo utente) provvediamo noi direttamente a far avere, quando necessario, le cartucce di ricambio tramite corriere. Il tutto sfruttando la Rete e le capacità di calcolo e comunicazione delle nostre macchine.

Va osservato che avete anche una sorta di chiodo fisso per l’innovazione, termine che ripetete come un mantra. Il fatto è che, in quanto occidentali, o inventiamo qualcosa di nuovo o in qualsiasi altra parte del mondo ci sarà sempre qualcuno in grado di produrre la stessa cosa a un costo più basso. La maggior parte dei prodotti occidentali che restano sulla cresta dell’onda, in qualunque settore, sono contraddistinti dalla capacità di creare o anticipare un bisogno che gli consente di spostare costantemente l’asticella verso l’alto. Ecco perché per Hp l’innovazione è una ragione di vita, in quanto aggiunge valore al prodotto. Intendo quello percepito dal consumatore. Poi si tratta anche di una nostra disposizione mentale, perché da 76 anni siamo fondamentalmente una società di ingegneri a cui piace inventare sempre cose nuove.

Se in un mercato lanci un prodotto portatore

di un cambiamento di valore per i consumatori,

questi risponderanno positivamente

Questo perché se un qualsiasi mercato è da un certo punto di vista maturo, non lo è mai se si è in grado di creare dei plus nel prodotto che lo differenzino dagli altri e lo rendano leader nel suo segmento… Esatto. Per esempio: è vero che quello dei notebook è un mercato maturo, ma i detachable, ossia quei prodotti che possono fare sia da pc sia da tablet, crescono del 200% l’anno. Questo dimostra che se all’interno di una categoria di prodotti riesci a portare un cambiamento di valore per chi li usa, il consumatore risponde positivamente. E in questo caso non è che si tratti di un’innovazione stratosferica, almeno a livello di sviluppo in laboratorio.

Può spiegarmi, con qualche esempio, cosa intende quando parla di tecnologia come abilitatore di nuovi modelli di business? Potrei citarle Coca-Cola: a un certo punto hanno avuto l’idea secondo la quale una bottiglia personalizzata con il nome dell’acquirente avrebbe avuto più appeal. Come mettere in pratica il progetto? Qui entra in gioco la tecnologia, perché con le classiche macchine offset, la stampa di certi nomi poco diffusi sarebbe risultata improponibile. Invece le nostre nuove macchine permettono di farlo con costi e tempi ragionevoli, in questo senso la tecnologia è diventata un fattore abilitante. Un altro caso interessante è quello di Csq, Centro Stampa Quotidiani, una realtà della provincia di Brescia che stampa diversi quotidiani del Nord Est e che, nei momenti di maggior presenza di turisti olandesi e tedeschi, stampa anche alcuni testate straniere. Come per Coca-Cola, la stampa in offset richiedeva un attrezzaggio, che a sua volta rendeva necessaria una diffusione minima. Oggi, invece, può stampare anche solo 25 copie, perché non ci sono costi di attrezzaggio. Questo ha espanso la sua possibilità di distribuzione e fidelizzazione (perché ci sono olandesi che vivono in zona e vorrebbero leggere sempre De Telegraaf). Inoltre si presenta l’opportunità di stampare piccoli inserti per aree specifiche e limitate, aprendo le porte a nuovi inserzionisti locali. Ciò che trovo straordinario è che spesso sono i clienti a inventare nuove applicazioni delle nostre tecnologie. È l’altra faccia della medaglia dell’innovazione. Quando proponi qualcosa di veramente nuovo, è probabile che dagli stessi clienti arrivino idee per esplorare inedite applicazioni.

Un altro vostro concetto che mi incuriosisce è quello dell’artigianato tecnologico. È qualcosa in cui crediamo veramente, ma che si realizzerà – non certamente nel giro di un anno o due – quando riusciremo davvero a semplificare la possibilità di trasferire i progetti che abbiamo in mente in una stampante, e a rendere questa macchina in grado di creare degli oggetti in materiali differenti. Perché oggi abbiamo l’idea di fondo di doverci “adeguare” a quanto disegnato da pochi altri. Inoltre, al momento, per realizzare un modello si lavora per sottrazione di materia e questo consuma energia oltre che materiale, perché per farlo sono necessari impianti molto grandi e complessi, concentrati in una specifica location. Per esempio, se produco automobili tenderò ad avere uno o due stabilimenti in Italia, non uno in ogni Paese in cui vendo. Terzo, se ho una produzione molto ampia e ripetitiva, devo cercare di avere costi altrettanto bassi e quindi devo avere lo stabilimento nel contesto più favorevole in termini di tasse, manodopera, logistica ecc. La stampa 3D promette di rivoluzionare tutto.

Come? Prendiamo come esempio una bottiglia. Oggi se ne producono milioni tutte uguali, indipendentemente dal fatto che la sua mano è probabilmente più piccola della mia. In futuro le basterà prendere il progetto e, nei limiti di brevetti e diritti d’autore, modificarlo come preferisce sul suo computer. Così, se ne avrà la necessità, potrà stamparsi dieci bottiglie più comode per la sua mano. Certo, stiamo guardando molto avanti, perché al momento le stampanti 3D non riescono a utilizzare il vetro e presentano altre criticità, e poi credo che all’inizio ci rivolgeremo a dei centri servizi, un po’ come avveniva per la stampa delle foto. In ogni modo, questa tecnologia permetterà di stampare gli oggetti non vicino a chi li crea, ma a chi li consuma, riducendo le necessità di concentrazione. Andiamo verso un processo di democratizzazione come quello avvenuto con la vendita on line, dove un piccolo produttore può oggi trovare clienti e visibilità a costi contenuti. Ecco, è questo che intendo quando parlo di artigianato tecnologico. E sarà un passaggio molto favorevole per noi italiani, perché oggi con poche eccezioni abbiamo piccole produzioni con tirature altrettanto piccole e altamente specifiche: molto apprezzate ma che hanno costi elevati. Nel giro di 15-20 anni, invece, ci troveremo di fronte a una democratizzazione della produzione. Nasceranno nuovi modelli di business e assisteremo a una sorta di evoluzione della specie anche per quanto riguarda le imprese.

Conferma che nel 2016 lancerete una stampante di questo tipo? Prevediamo di proporla nell’arco dei prossimi 12-15 mesi. Siamo convinti, ed è quello su cui ci stiamo concentrando, che si possa aumentare enormemente la velocità di stampa in 3D. Utilizzando questa nostra barra che chiamiamo PageWide, passeremo dal lavorare per punti o linee, come si fa ora, a procedere per superfici. Questo, oltre a velocizzare i processi, consentirà spessori per strato pari a un ottavo di quello di un capello, realizzando così una struttura più resistente in meno tempo. E il prodotto uscirà dalla stampante con una finitura superficiale definitiva. Inoltre, la cosa fantastica è che, lavorando per superfici, si potranno realizzare diversi oggetti in contemporanea e non necessariamente tutti uguali.

L’importante è cambiare prima di essere

obbligati a farlo dalle circostanze,

così da potersi muovere senza stress

e con un certo margine di errore

Sarebbe questo il filo conduttore della nuova rivoluzione industriale che verrebbe innescata dalla tecnologia? Anche… Noi lo stiamo applicando soprattutto nella progettazione e produzione degli oggetti, quindi in ambito molto operativo, ma in senso più ampio ci troviamo di fronte a un nuovo concetto di manufacturing 4.0, che include l’utilizzo del cloud. E c’è l’addictive manufacturing, un principio insito nel discorso del 3D e diametralmente opposto alla produzione in levare cui ci si affida oggi. E questo non è un concetto solo di Hp, ma più ampio e appartiene al mondo.

Lei è da 27 anni in un’azienda It, come si fa a tenere il passo così a lungo e a rimanere tanto appassionati di un argomento che impone un continuo mutamento dei punti di riferimento? Mi ritengo un uomo estremamente fortunato sotto ogni punto di vista, compreso l’aspetto lavorativo. Ho avuto la fortuna di entrare in Hp dove ho trovato un ambiente caratterizzato da una cultura e modalità di interazione che in qualche modo sono vicine ai miei valori. In più, è vero che sono qui da 27 anni, ma non credo di essere mai rimasto per più di cinque o sei nella stessa Business Unit. Ho lavorato più o meno per tutte con l’eccezione della divisione Software, e l’ho fatto a livello italiano, europeo e worldwide.

Quindi, la ricetta è cambiare? Per me è stato così: cambiare rimanendo sempre nello stesso ambiente. È un po’ come se io, nello stesso Paese, avessi fatto il farmacista, il prete, il vigile, l’operaio, l’impiegato comunale e il salumiere. Così sono sempre stato a contatto con la gente che mi piace, in un ambiente a me congeniale, ma non mi sono mai annoiato perché ho recitato in tutti i ruoli (ride). Scherzi a parte, tutto questo è un grande vantaggio perché quando mi trovo a interagire con queste diverse figure, riesco a percepirne le esigenze e farle dialogare tra loro. Sono una specie di traduttore simultaneo (ride).

Anche Hp è stata costretta a cambiare facendosi in due. È una tappa dell’evoluzione continua che si è imposta l’azienda. L’importante è cambiare prima di essere obbligati a farlo dalle circostanze, in modo da potersi muovere senza stress e con un certo margine di errore. E devo dire che da sempre, quando Hp ha deciso di intraprendere dei cambiamenti, ha saputo ogni volta anticipare i tempi.

© Riproduzione riservata